domenica 31 marzo 2013

L'isola Mafia


L' isola Mafia si trova nell'oceano Indiano. Ha una superficie di 435 km2 e circa quarantamila abitanti, detti "mafiani". Politicamente appartiene allo stato di Tanzania; pur essendo non lontana da Zanzibar, non dipende amministrativamente da quest'ultima ma dalla regione continentale di Pwani, di cui forma uno dei sei distretti. E' suddivisa a sua volta in ulteriori sei distretti; capoluogo è Kilindoni, che forma un'unità territoriale con le località di Kilindini e Kinondoni. La lingua parlata dalla popolazione è una forma di swahili (nella lingua locale, l'isola Mafia è detta Chole Shamba).




Sull'origine del nome dell'isola esistono due ipotesi. La prima potrebbe gettare interessante luce anche sulla "mafia" di casa nostra, dato che il nome verrebbe fatto risalire all'arabo morfiyeh, che significa sia "gruppo, banda" che "arcipelago". L'origine araba non è assolutamente "di fuori" per un'isola situata in quella zona del mondo: la stessa lingua swahili parlata dalla popolazione è una lingua bantu infarcita di parole arabe (e lo stesso nome "swahili" è di origine araba). Vi sono poi ovvie connotazioni religiose. Il significato di "gruppo" o "banda" si sposerebbe poi perfettamente con la "mafia" intesa come associazione e organizzazione, in un'isola come la Sicilia rimasta a lungo, storicamente, sotto il dominio e l'influenza araba. Se,comunque, il nome "mafia" sembra emergere in Sicilia nel XVIII secolo (vale a dire dopo che il dominio arabo era finito da secoli), si dovrebbe ipotizzare un'uso della parola di origine araba rimasto costantemente attivo in senso generale; la designazione di "Mafia" sarebbe quindi stata, ad un un certo punto, un tipico caso di antonomasia (l' "Organizzazione", il "Gruppo" per il quale non è necessaria alcun'altra specificazione; un caso frequentissimo). Dal significato collaterale (e naturale: "gruppo di isole") si sarebbe invece sviluppato il nome dell'isola africana. Curioso, comunque, che tutto sembri ruotare attorno a delle isole, pur lontanissime l'una dall'altra. 

La seconda ipotesi vorrebbe invece che il nome derivasse dallo swahili mahali pa afya, vale a dire "luogo della salute"; si tratterebbe quindi di una sorta di "concentrazione" di parole, di coalescenza. Mi sembra però un caso abbastanza palese di Volksetymologie, di etimologia popolare per una parola che non significa niente di preciso agli orecchi delle persone; tanto più che l'isola Mafia è stata storicamente un importante scalo per le navi arabe.  Gli indigeni, comunque, preferiscono chiamarla con una denominazione derivata dalla principale baia dell'isola, la baia di Chole.

Nella storia dell'isola Mafia, il 1820 è un anno ricordato con terrore. In quell'anno, infatti, l'isola fu attaccata dai cannibali Sakalava, che arrivarono dal Madagascar con ottanta canoe; i mafiani vennero in discreta parte mangiati, mente il resto fu preso e ridotto in schiavitù. 

Nel 1890 l'isola Mafia passò nelle mani della Germania; è il motivo per cui, attorno alla baia di Chole, si trovano ancora numerosi edifici dall'aspetto tipicamente bavarese. La Germania comprò semplicemente l'isola, acquistandola per 4 milioni di marchi dal sultano dell'Oman, Sayyid Ali al-Said. La dominazione tedesca di Mafia durò fino al 1915, quando l'isola fu conquistata dalle truppe britanniche. 

Attualmente, Mafia è nota per essere diventata un centro di ecologia marina e una zona protetta ambientale sotto l'egida del WWF.


sabato 30 marzo 2013

La mala Pasqua!



Auguro la mala Pasqua di un dio inventato a quella fogna di Giovanardi. Che vada a raggiungere il suo simile Potito Salatto nel disprezzo e, possibilmente, in una pessima morte.


Me lo vedo già, il "cattolico" Giovanardi, domani a pigliare ostie in bocca dopo che quella stessa bocca ha pronunciato, ieri, i consueti orrori sulla pelle di un ragazzo di diciott'anni ammazzato da quattro assassini in divisa. Se domani quelle ostie gli andassero di traverso e lo soffocassero, forse iddio avrebbe guadagnato qualche punto. Secondo Giovanardi, le "vittime" sarebbero i poliziotti, capito. Che cosa sia invece tutta questa vicenda glielo ricordano persino i tifosi dell'Udinese:


E stai attento, ratto di chiavica, perché ora il limite è stato passato, e di un bel pezzo. Quando te lo dicono persino dei tifosi di pallone, sarà bene che tu cominci a stare parecchio attento a quel che dici e a quel che fai. La misura non è semplicemente colma; sta traboccando come un'alluvione.

"No a sanzioni", dice la Cancellieri. Non soltanto. Pare oggi che, a gennaio del 2014, quei quattro assassini ce li ritroveremo tutti belli in servizio nella polizia. Altro che "espulsione", questi qua torneranno a prendersi il loro bravo stipendio nella busta sangue.

Bravi a quelli di Anonymous per avere hackerato il sito internet del "COISP" e per averlo reso irraggiungibile per tutta la giornata di ieri. Ma, tanto, è già tornato attivo. E come fanno comunicati su comunicati, ora, sullo "spiacevole episodio" di Ferrara! Come si accora il loro capetto, il Maccari, "contro le mistificazioni" ! E' bene andare a vedere nel dettaglio come chiude il Maccari la sua dichiarazione del 29 marzo: "L'unico interesse del Coisp era e rimane quello di fornire un'informazione sul trattamento riservato a quattro poliziotti, condannati ma detentori, fino a che la democrazia resistera' in Italia, di doveri (accentuati dallo status che ricoprono) ma anche di diritti e garanzie di vedere la Legge applicata. " 

Avete capito. Invocano la "detenzione di diritti" e la "democrazia", questa mànica d'assassini legalizzati. E come vengono loro riconosciuti immediatamente, i "diritti", compreso quello di tornare a lavorare una volta scontata una pena inesistente o quasi.

Inutile, a mio parere, specificare ad ogni piè sospinto di "essere sempre e comunque contro il carcere". Non ci piove, su questo, e non ci deve piovere. Ma è altrettanto inutile immaginare e dichiarare "pene alternative", come mesi a spalare merda o roba del genere. Non ci vanno, a spalare merda. La merda tocca tutta quanta a noialtri, spalarla e pigliarla in faccia dalle "istituzioni".

A Federico Aldrovandi, quello che è stato massacrato "colposamente", come dice il Giovamerda, invece è toccato morire a diciott'anni. E sarà bene, d'ora in poi, non soltanto ricordarselo. Sarà bene tornare ad esercitare la rabbia e la rivolta. Questi devono smetterla di considerarsi impuniti sempre e comunque. Protetti e spalleggiati. Basta. Basta. Basta!

Poveri & piedi



Allora, via, non resterà che fare così.

Io sono, notoriamente, povero.

Ad esempio, un paio di scarpe mi devon durare finché non cascano a pezzi. Porto praticamente solo scarpe da ginnastica della "New Balance", perché su al negozio "L'Isolotto dello Sport" le hanno di numeri superiori al 46 (io porto il 48 di piede). Costano oltre cento euri al paio, quindi me le devo far bastare.

Quest'estate me le metterò senza calzini, magari durante una delle famose ondate di caldo tipo "Lucifero" o "Brunovespa". Poi vo a Roma quando i' papafrancesco 'e làa i piedi a' pòeri. Gni diho: "O papa! 'E so' pòero! E' tu mi dèi laà 'piedi!"

Mi levo le scarpine.

Due minuti dopo c'è bisogno d'un altro conclave.

venerdì 29 marzo 2013

Cara signora Patrizia Moretti


Cara signora Patrizia Moretti,

Sinceramente non lo so se Lei, durante tutta la vicenda seguita all'assassinio di Suo figlio, Federico Aldrovandi, da parte di quattro agenti di polizia, abbia mai dichiarato (in interviste, dichiarazioni, comunicati) di "credere nella giustizia". Davvero non lo so. E' una frase che ho sentito, non di rado, pronunciare da persone legate ad altre vittime di assassini in divisa, però. Familiari, amici, legali. Dalla sorella di Stefano Cucchi, ad esempio.

Non so davvero se lei lo abbia mai fatto. Può darsi di sì, può darsi di no. Ad un certo punto, nel Suo caso, la "giustizia" dello Stato italiano, lo stesso che annovera come suoi fedeli servitori quei quattro là, il Pontani, il Pollastri, il Forlani e la Segatto, li ha condannati ad una pena ridicola per l'omicidio di un ragazzino di diciott'anni che non aveva fatto niente. Suo figlio, appunto. Sono andati in carcere per scontare un minuscolo residuo di pena: sui 3 anni e 6 mesi di carcere comminati ai quattro, tre anni sono stati infatti condonati per l'indulto: restano sei mesi, che peraltro la Segatto sconterà ai domiciliari perché scarcerata il 18 marzo scorso per il "decreto svuota-carceri".

Ma che diavolo Le sto a dire, signora Patrizia Moretti; sono tutte cose, queste, che Lei conosce anche fin troppo bene. Le ha scolpite addosso. Marchiate nello stesso sangue di Suo figlio, di quel ragazzo massacrato che si vede nella foto che Le è toccato, anche due giorni fa, tornare a mostrare per le strade perché Le erano venuti a fare, i sodali di quei quattro assassini, una lurida mascherata sotto alle finestre del posto di lavoro. Quella foto che è agli atti processuali, e che quelli là continuano a chiamare un "fotomontaggio". 

Qualunque cosa Lei abbia dichiarato in tutti questi anni, questa è la "giustizia" che le viene riservata, signora Patrizia Moretti. 

Bisogna saperlo, che cosa sia la "giustizia" in questo paese. Bisogna saperlo, e trarre delle conclusioni semplicemente logiche.

La "giustizia" di un paese che ha dodici sindacati di polizia, tra cui quel "COISP" che organizza i presidi di solidarietà con gli assassini di un ragazzo sotto le finestre di sua madre. Bisognerebbe, signora Moretti, che si andasse in giro ad esigere, e con nessuna cortesia o rispetto, che i "sindacati di polizia" fossero eliminati. Che fossero tutti sciolti, dal primo all'ultimo e non soltanto il "COISP". Che se ne vietasse la ricostituzione per sempre.

La "giustizia" di un paese dove degli assassini giudicati tali da un tribunale, seppure con l'applicazione di pene inferiori a quelle per il furto di due lattine di birra da un supermercato, si permettono di insultare, di sbeffeggiare, di delegittimare la madre della vittima, certi di trovare ascolto ed appoggio da qualche parte, specialmente nelle istituzioni.

Si ricorderà certamente di quante attestazioni di solidarietà abbiano ricevuto gli agenti, e nel contempo il corpo della polizia intero. Si ricorderà delle consuete grida di "giù le mani dalla polizia!" di Ignazio La Russa. Avrà magari anche visto che, il 27 marzo, assieme ai sodali degli assassini di Suo figlio si è presentato anche un "europarlamentare" del PDL, tale Potito Salatto, a dar loro man forte. È la "giustizia" di uno Stato dove una delle principali associazioni a delinquere della sua storia, il cosiddetto "Popolo delle Libertà", esprime anche personaggi del genere. 

La "giustizia" di una ministra che, pur non avendo preso nessun provvedimento per quei quattro assassini (tipo cacciarli a pedate dalla polizia), limitandosi a "prese di posizione" a parole che hanno sempre lasciato il tempo che trovano, si ritrova ora ad essere attaccata violentemente dal capo di un sindacaticchio di sbirri. Ma dove ha un po' di dignità, questa signora Cancellieri? La ha soltanto per ordinare di manganellare e arrestare i NO TAV? "No a sanzioni, ma giudizio critico"; signora Cancellieri, se ne sbattono del suo "giudizio critico", quelli. 

La "giustizia" di uno Stato che permette ad altri assassini, quelli di Giuseppe Uva (stavolta in divisa da carabinieri), di indagare per "diffamazione" la sorella della vittima.

La "giustizia" che permette impunemente uno stalking di Stato ai danni di una povera donna che già si è vista ammazzare il figlio di diciotto anni per una canna.

La "giustizia" di uno Stato fascista. Perché quelli sono fascisti, come la stragrande maggioranza di chi appartiene alle "forze dell'ordine". Ci si scandalizza perché la schifosa polizia greca fa ormai le squadracce miste assieme ai nazisti di Alba Dorata, ma in Italia sono come loro. Di qualsiasi tipo, ordine e grado. I "bravi poliziotti" esistono solo nella penna di Camilleri. Fascisti, e fascisti pericolosissimi, certi dell'impunità, protetti da una divisa. Con la mentalità e la struttura di una banda organizzata, di una squadraccia, di una cosca mafiosa; poi ci fanno anche i filmini sopra, fortunatamente ignorati nonostante i gran lanci pubblicitari. Arroganti, violenti, prevaricatori. Al di sopra della legge; e non è un certamente un caso che la peggiore banda di criminali mai comparsa in Italia, quella della "Uno Bianca", provenisse in blocco proprio dalla polizia. Tra i fratelli Savi e i quattro di Ferrara esiste una contiguità precisa.

Vengono selezionati, arruolati e addestrati per questo, da sempre. Sempre e solo dalla parte dei padroni, cara signora Patrizia Moretti. Se ne è accorta sulla Sua persona. Si è accorta di che cosa sia capace lo Stato che schiaccia i suoi "cittadini" come formiche, potendo oltretutto contare su un'opinione pubblica manipolata, forcaiola, luridamente reazionaria, fatta di bravi "padri di famiglia" che godono "quando il ladro muore, se si arresta una puttana, se la parrocchia del Sacro Cuore acquista una nuova campana", come cantava -giustamente- anni fa Claudio Lolli.

E' la "giustizia" di uno Stato i cui "cittadini", del resto, telefonavano alle radio genovesi e nazionali esprimendo gioia e letizia per l'assassinio di Carlo Giuliani; e quella non era la polizia, erano i vicini di casa, le massaie alla televisione, i "lavoratori", tutti quanti. Chissà se qualcuno di quelli che telefonava ridendo e urlando "uno a zero" su Carlo assassinato, è finito qualche tempo dopo nella polvere della "crisi", e magari si è pure suicidato perché non arrivava a fine mese o lo avevano licenziato. 

Che cosa vuole che sia, signora Patrizia Moretti, un ragazzo ammazzato? Lo sa quanti ne hanno ammazzati, questi, di ragazzi come Suo figlio? Certo che lo sa, purtroppo.

Come sa benissimo, signora Patrizia Moretti, che Lei appartiene ai "parenti delle vittime" che non contano nulla. Quelli, anzi, che possono essere perseguitati, intimiditi e indagati. Lei non è, signora, il figlio dell'orefice che è stato messo in carrozzina, peraltro, da un colpo sparato da suo padre. Per Lei, signora, non nascono le crisi col Brasile. Federico Aldrovandi, di anni diciotto, non è un "marò" per il quale si scomodi Staffan De Mistura o si dimetta il ministro. Anzi, nel Suo caso il ministro si affretta a urlare "no a sanzioni" mentre viene fatto passare per un idiota.

Le è toccato, signora, far parte dei parenti sbagliati. Quelli cui consigliano di dire "credo nella giustizia" per non aggravare le cose. Lei non è la vedova Calabresi. Le tocca scendere le scale del Comune di Ferrara, dove lavora, e mostrare una foto la cui visione schianterebbe chiunque, mentre la claque degli assassini Le volta le spalle e apostrofa con arroganza un sindaco. 

E allora, signora Patrizia Moretti, mi auguro semplicemente che Lei quella frase, "credo nella giustizia", non la abbia mai pronunciata. Lo voglio sperare. Vorrei che non fosse più pronunciata da nessuno. Vorrei che si dicesse: "No, nella vostra giustizia io non ci credo. Non ci credo non solo perché non esiste, ma perché non può esistere."

Lo Stato non giudica se stesso e i suoi servi. Ha dovuto, signora, non soltanto apprederlo nel dolore e nel sangue; ha dovuto anche accontentarsi di una farsa per la quale è sottoposta ad un trattamento orrendo. "No a sanzioni"; tra sei mesi, perché un ragazzo ammazzato a diciott'anni da dei poliziotti costa sei mesi, torneranno a lavorare. Rimetteranno loro le armi in mano e ad affidare loro l' "ordine", l'ordine della morte.

Lo gridi allora, quando ne avrà la possibilità, che in questa "giustizia" lei non ci crede affatto, perché non è possibile crederci. Perché è un controsenso crederci. Perché è un controsenso stampato, e calpestato, nella pozza di sangue attorno a Suo figlio.

E se per caso Lei leggesse queste righe, signora Patrizia Moretti, la abbraccio forte.

Coisp, coisp, coisp



giovedì 28 marzo 2013

Sabbie mobili


Se c'è qualcosa che le sabbie mobili proprio non possono fare, è inghiottire la gente; ci si può restare impantanati, senz'altro, ma affondarci va contro le leggi stesse della fisica. E' senz'altro vero che hanno una debole capacità di sostenere pesi: si tratta, infatti, di una massa di sabbia fine (o di argilla) più o meno satura d'acqua (un cosiddetto gel idrocolloidale, la cui caratteristica principale è quella di avere viscosità variabile a seconda delle sollecitazioni cui è sottoposto). Però, dati il suo peso specifico e la sua densità, un essere animato può affondare soltanto per metà del suo volume; inoltre, la sabbia pesa più del corpo di una persona o di un animale e, quindi, sulle sabbie mobili in realtà si galleggia (almeno in teoria) molto più facilmente che sull'acqua. In ogni caso, è rarissimo che le sabbie mobili siano molto profonde; gli unici pericoli veramente mortali sono derivati dal rimanervi intrappolati a lungo senza soccorso (nel qual caso si muore per disidratazione e per fame), oppure, nel caso di sabbie mobili marine, dal ritorno dell'alta marea. 

Nonostante ciò, il "mito" delle sabbie mobili che inghiottono i cristiani è pressoché inattaccabile. La foto che segue proviene dalla spiaggia di Slufter, sull'isola olandese di Texel, dove sono effettivamente presenti sabbie mobili. L'avviso è ovviamente in lingua olandese (Pas op sta per "attenzione" e drijfzand per "sabbie mobili"), ma l'iconografia mostra le "classiche" mani dell'omino che affonda, anzi che è già affondato completamente:


A tutto questo non può essere estraneo il cinema. Per tutti gli anni '50 e '60 le sabbie mobili hanno imperversato nei film di avventura (ma non solo). La rivista Slate ha calcolato che negli anni '60, considerato il periodo d'oro delle sabbie mobili, circa il 3% di tutti i film prodotti negli Stati Uniti d'America hanno mostrato qualcuno che sprofonda nelle sabbie, nel fango, nell'argilla o in qualche altro merdaio del genere. Quasi sempre, i predestinati a morire nelle sabbie mobili sono i "cattivi", specialmente mentre sono all'inseguimento dei buoni in foreste, giungle, paludi o roba del genere; in questo caso le sabbie mobili hanno sia funzione salvifica (intervengono regolarmente quando i buoni sono oramai stati raggiunti e stanno per soccombere), sia come estrema punizione per i malvagi, dato il tipo di morte atroce. Si tratta della "funzione primitiva" delle sabbie mobili, che non a caso si trova, già nel 1941, nel film Swamp Water (in italiano: La palude della morte), il primo girato da Jean Renoir negli Stati Uniti. Qui il "cattivo" Bud Dorson, interpretato da Guinn Williams, sprofonda nelle sabbie mobili:



In Dark Waters (in italiano: Acque scure), film del 1944 diretto da André de Toth e interpretato da Thomas Mitchell, Franchot Tone e Merle Oberon, a finire nelle sabbie mobili è invece Elisha Cook Jr:


Un'altra casistica abbastanza frequente è quella del pover'uomo o del disgraziato che, magari sulla strada di una difficile redenzione, perisce nelle sabbie mobili. L'esempio classico ci viene qui dal famoso film Il diavolo alle quattro (The Devil at 4 'o Clock), diretto nel 1961 da Mervyn LeRoy e interpretato da Spencer Tracy e Frank Sinatra. Sinatra fa parte di un terzetto di galeotti che si trova su un'isola del Pacifico che sta per essere distrutta da un vulcano; quando tutti gli abitanti se ne sono andati, restano soltanto un vecchio prete irlandese (Spencer Tracy) che tiene sull'isola una comunità per bambini lebbrosi e dove convince a collaborare anche i tre galeotti. Almeno uno dei tre disgraziati deve fungere da vittima sacrificale, e tocca ovviamente al più simpatico, Marcel, interpretato da Grégoire Aslan. Al momento in cui cade nelle sabbie mobili porta sulle spalle un bambino che viene salvato, mentre il pur generoso tentativo di salvare lui non può andare a buon fine: qui le sabbie mobili hanno, per il malvagio redento, la funzione di ascensore al regno de' cieli.


Altre vittime predilette delle sabbie mobili sono le donne. Può trattarsi, certamente, di donne  che ricadono nelle due categorie precedenti (donne cattive o poveracce innocenti); nella scena che segue, tratta da un film non meglio identificato, affoga nelle sabbie mobili una signora che sembra la cara, vecchia zia:


A volte tocca invece alla bella ragazza sprovveduta e sfortunata:
 

Le donne, però, hanno maggiori probabilità di essere tirate fuori dalle sabbie mobili, specie se giovani e belle (però, non di rado, periscono nelle sabbie mobili proprio perché sono giovani e belle). Nella scena sotto, tratta da Emmanuelle e gli ultimi cannibali (Emmanuelle and the Last Cannibals), diretto da Joe D'Amato e interpretato da Laura Gemser e Gabriele Tinti, Nieves Navarro (o Susan Scott che dir si voglia) viene tratta in salvo:


Ma le sabbie mobili, ad un certo punto, non risparmiano veramente più nessuno; e così se ne impossessa, fatalmente, la comicità. Nella commedia western della Walt Disney Hot Lead and Cold Feet, del 1978 (Piombo caldo e piedi freddi, diretta da Robert Butler), delle improbabili sabbie mobili spuntano nel bel mezzo di strada di una fangosa cittadina del vecchio West, inghiottendo lo sceriffo (interpretato da Don Knotts) proprio durante la fatidica scena del duello:


La scena non ha soltanto un notevole effetto comico (con lo sceriffo che, sulle prime, non si accorge di stare sprofondando a picco nelle sabbie mobili "urbane" e continua a contare fino a tre per il duello); è anche un ottimo esempio per un'altra interessante caratteristica delle quicksands scenes, vale a dire il cappello della vittima che rimane a galleggiare sulla superficie delle sabbie dopo che essa è del tutto sprofondata. Si tratta di un particolare presente in decine di scene del genere (se non è il cappello, è comunque qualcosa che la vittima indossa). Lo si è visto anche nella scena di Swamp Water.

Le sabbie mobili, come detto, hanno avuto il loro grande momento di gloria negli anni '60, condizionando forse per sempre la percezione che ne abbiamo; si aggiunga a tutto questo che il cinema le ha trasmesse al fumetto. Non si deve però credere affatto che le sabbie mobili siano scomparse; tutt'altro. Anche in anni più recenti, e addirittura recentissimi, hanno continuato a inghiottire nuove categorie mai esperite prima. Così, ad esempio, nel film del 1981 Southern Comfort (in italiano: I guerrieri della palude silenziosa, diretto da Walter Hill e interpretato da Keith Carradine e Powers Boothe), nelle sabbie mobili ci finisce un soldato armato fino ai denti:
 

Assolutamente unica è la scena del film cinese Mountain Patrol (in italiano: Battaglia in paradiso, 2004, diretto da Chuan Lu), dedicato ai volontari che, in Tibet, proteggono le antilopi dai bracconieri. E il capobracconiere, in pieno deserto, dopo che ha forato e si accinge a cambiare la gomma, trova la sua ineluttabile punizione finendo in una stupefacente "sabbia mobile secca" che lo inghiotte (un'autentica aberrazione fisica, ma sicuramente una trovata cinematografica geniale):
 

Al 2003 risale invece la migliore quicksand scene del terzo millennio, nel film Sin (Peccato mortale), dove Gary Oldman, che ha di per sé una faccia da uno che deve finire per forza nelle sabbie mobili, vi finisce effettivamente, e per giunta in pieno deserto e con tutta la macchina:
 

Scena interessante anche perché contiene tutta una serie di topoi delle sabbie mobili: l'affondamento lento, l'estremo tentativo di salvataggio del cattivo da parte del buono, il rassegnato pentimento finale e, soprattutto, lo sparo pietoso che risparmia alla vittima una morte atroce (anche questo un particolare ripreso spesso nei fumetti).

martedì 26 marzo 2013

lunedì 25 marzo 2013

Gocce





Nel 1927, il professor Thomas Parnell (nato nel 1881), docente di fisica applicata presso l'Università del Queensland, in Australia, decise di mettere su un esperimento a beneficio dei propri studenti. L'assunto era dimostrare che delle sostanze in apparenza solide sono, in realtà, dei liquidi altamente viscosi; il professor Parnell, quindi, si prese tutto il tempo necessario.

Cominciò col prendere un campione di pece, lo fece riscaldare e lo mise in un imbuto sigillato, in modo che potesse sedimentare; ce lo lasciò per tre anni. Nel 1930 il fondo dell'imbuto venne finalmente aperto, e gli venne posto sotto un bicchiere; il tutto fu sistemato in una campana di vetro. L'intento era quello di studiare il gocciolamento della pece riscaldata, affinché potesse essere appunto dimostrato che tale sostanza non era affatto solida, bensì un fluido ad elevatissima viscosità. E la pece si mise, appunto, a gocciolare; ma con dei tempi tutti suoi.

La prima goccia cadde nel dicembre del 1938, vale a dire oltre otto anni dopo l'apertura dell'imbuto; il professor Parnell fece in tempo a vedersi depositare nel bicchiere la seconda goccia, che cadde nel febbraio del 1947. Il 1° settembre 1948 il professor Parnell morì mentre la terza goccia era appena accennata nel cannello dell'imbuto; non si sa bene se l'università del Queensland fosse incuriosita oppure se ne fosse semplicemente dimenticata; fatto sta che l'assistente del professor Parnell, John Mainstone (che gli succedette nella cattedra) decise di mandare avanti l'esperimento.

L'esordio di Mainstone avvenne nell'aprile del 1954, quando cadde la terza goccia di pece nel bicchiere. E qui si presentò un problema: mentre le prime due gocce erano cadute più o meno con una cadenza di otto anni, la terza era caduta soltanto sette anni e due mesi dopo. Il professor Mainstone si rese conto che l'esperimento non era tenuto in condizioni atmosferiche controllate, per cui la viscosità della pece variava nel corso dell'anno a seconda della fluttuazione della temperatura. Seguendo canoni rigorosamente scientifici, l'esperimento era quindi imperfetto; ciononostante, proseguì.

Per la quarta goccia si tornò ai consueti otto anni circa: cadde nel maggio del 1962. Così per la quinta, caduta nell'agosto del 1970 (otto anni e tre mesi dopo), e per la sesta, caduta nell'aprile del 1979 (otto anni e sette mesi dopo). Il luglio del 1988 è una data fondamentale: dato che il capriccio della fluttuazione termica aveva fatto stabilire il record di intervallo (ben nove anni e tre mesi), il professor Mainstone si decise a far installare nel locale dove veniva tenuto tutto l'armamentario un impianto di condizionamento, che permise finalmente di stabilizzare la temperatura.

Nel 1990, sessant'anni dopo l'apertura dell'imbuto (e sessantatré dopo l'inizio dell'esperimento), il professor Mainstone si fece ritrarre orgogliosamente assieme all'imbuto con la pece:


Una conseguenza immediata dell'installazione dell'impianto di condizionamento, fu quella di rallentare la caduta delle gocce: l'ottava, e finora ultima, è infatti caduta il 28 novembre 2000, dodici anni e tre mesi dopo la settima. Settantatré anni dopo l'inizio dell'esperimento, gli sperimentatori finalmente si espressero dichiarando ufficialmente la pece un fluido (notizia accolta coi crismi dell'ufficialità dalla comunità scientifica internazionale) e calcolando la sua viscosità in circa 230 miliardi di volte (2,3 x 1011) maggiore rispetto a quella dell'acqua.

Esperimento concluso? Neanche per sogno. C'era infatti ancora una piccola questione da risolvere: nessuno aveva mai visto cadere una goccia, vale a dire l'atto del suo distacco dalla massa. Nel 1998, in previsione della caduta dell'ottava goccia, si era finalmente ricorsi alle "nuove tecnologie" ed era stata installata una webcam; solo che, nel 2000, si era rotta. Un'autentica beffa che aveva impedito lo storico avvenimento. La webcam è stata in seguito sostituita con un modello più affidabile, che è ancora in funzione: la si può vedere alla pagina Pitch Drop Experiment del sito dell'Università del Queensland, dove compare la campana di vetro assieme ad un orologio. 

La cosa non è di poco conto, perché la nona goccia, nonché la prima che -presumibilmente- verrà vista, potrebbe cadere letteralmente a momenti: il distacco è stato infatti calcolato per la prima metà del 2013, se non interverranno imprevisti fattori di disturbo. 

Nel frattempo sono successe altre interessanti cose. La prima, ovviamente, è che l'esperimento della goccia di pece del professor Parnell ha stracciato ogni record per la durata continua di un esperimento scientifico: è, infatti, in corso da ottantasei anni di filata.

Nel 2005, il professor John Mainstone e la memoria del professor Thomas Parnell sono stati insigniti del Premio Ig Nobel per la fisica. Il premio Ig Nobel è una parodia del premio Nobel che viene assegnato ogni anno dalla rivista di satira scientifica americana Annals of Improbable Research (AIR). Personalmente trovo molto bello e, a modo suo, poetico, che esista una satira scientifica; anche perché "satira" non significa che le ricerche e gli esperimenti presi in esame dalla rivista non abbiano un serio fondamento. [*] Il premio Ig Nobel viene ovviamente assegnato alle ricerche che, ogni anno, si distinguono o per la più perfetta inutilità pratica, o per l'assoluta originalità (unita ad un tocco di comicità). Nel ricevere il premio Ig Nobel nel 2005, il professor John Mainstone così commentò, facendo mostra di un aplomb carico della massima dignità e di uno stile impeccabile:

"Sono certo che Thomas Parnell sarebbe stato lusingato di sapere che Mark Henderson [il direttore di "Annals of Improbable Research", ndt] lo ritiene degno di attribuirgli un premio Ig Nobel. Nella motivazione del conferimento al professor Parnell dovrebbe naturalmente essere menzionato con un applauso il nuovo primato che egli ha stabilito per la durata tra l'effettuazione di un esperimento scientifico seminariale e l'attribuzione di un simile importante riconoscimento, sia pur esso un premio Nobel o un premio Ig Nobel."

Al professor Thomas Parnell è stato intitolato il Dipartimento di Matematica e Fisica dell'Università del Queensland; peraltro, è proprio in un locale del relativo campus di Santa Lucia che viene tenuto l'esperimento. Non è esagerato affermare che l'università del Queensland deve una non trascurabile parte della sua notorietà proprio all'esperimento della goccia di pece.

E' stato calcolato che nell'imbuto (anche tenendo conto del prossimo distacco della nona goccia) c'è ancora una quantità di pece da gocciolare sufficiente a far proseguire l'esperimento approssimativamente per i prossimi centotrenta anni.

[*] Molti anni fa, quando da ragazzino ho frequentato per anni la scomparsa palestra "Pastorini" a Firenze (si trovava in via Faenza a poca distanza dall'altrettanto scomparso -e sordido- cinema "Columbia"), avevo come insegnante e istruttore il professor Bruno Tamburini. Era, costui, un uomo assolutamente gigantesco: era alto due metri e cinque centimetri e calzava scarpe numero 52 (con un'andatura strana, perché i piedi gli si erano congelati in Russia durante la guerra). Per un periodo era stato, se ben mi ricordo perché sono cose di circa quarant'anni fa, anche nello staff della Federazione Italiana di sport per disabili (andavo in palestra, allora, infatti, per un problema di scoliosi). Il professor Tamburini era anche laureato in fisica, e asseriva ogni tanto di aver prodotto, da studente, un serissimo e dettagliatissimo studio sull'effetto dello scodinzolamento dei pesci sul moto ondoso di una data porzione del mar Tirreno. Della "Pastorini", che ho frequentato fino al 1978, mi ricordo anche l'inserviente, tale Assuntina, una donnina di un metro e cinquanta scarso; vederla accanto al professor Tamburini era uno spettacolo. Ed anche che, per qualche mese, ha frequentato il mio stesso corso (alle 18,20), tale Piero Pelù (più grande di un anno di me). Fine dell'excursus.


Ceci n'est pas Facebook !


Claude Semal è un cantautore e cabarettista belga (è nato a Bruxelles nel 1954); quasi a ricordare che a me i belgi stanno particolarmente simpatici, leggo dalla sua biografia che è uno di quelli che "ha fatto il liceo classico" per poi ritrovarsi a fare l'operaio in una pelletteria industriale. Nella foto lo vediamo fare il "Magritte", non senza dire che prima o poi dovrò fare un giro a Lessines; un posto dove sono nati sia René Magritte che Raoul Vaneigem, bisogna che ci vada a farmi una birra e a mangiarmi un paio di praline al cioccolato prima di morire.


Tornando a Claude Semal, nella sua vita sembra che abbia scritto una bordata di canzoni; dovevo aspettare di conoscerlo prima di trovare, finalmente, the ultimate Facebook song. La canzone definitiva, insomma. Finora conoscevo soltanto la pur irresistibile "Lasciarsi su Facebook" del "finto-neomelodico" Manuele D'Amore; ma con "Facebook" di Claude Semal siamo finalmente arrivati alla Verità (che, come alcuni tengono a dire un giorno sì e un giorno sì, sarebbe sempre "rivoluzionaria"), e non solo su Facebook, ma sulla "Rete" intera. La presento qua, in traduzione italiana: "Non ho niente da dire, come non dirlo? I miei piccoli nulla sono tutta la mia vita..."

Facebook, Facebook
ho un sacco d'amici
quando sono su Facebook
Facebook, Facebook
ma nella vita reale
sono un ... buzzurro

Ricevo cuoricini, clip, rose,
"smile", "coccole" e bacetti,
"kiss", "cool" e "nobili cause"
e foto di Tizi Ouzou
nella mia messaggeria
ho venti Caterine, dieci Malinka,
ragazze di Abidjan, russe,
che sognano tutte di vivere con me

Facebook, Facebook,
ho un sacco di bei vestiti
quando sono su Facebook,
ma nella vita reale
non ho un gran look

La mia casella di posta è una locanda
dove mille venditori di Viagra
si battono per ingrossarmi il pene
e per vendermi prodotti grassi...
Ma perché allungarsi il pisello
per dargliene un po' di vuvuzela,
ci son dei bei pornazzi quando cerchi
di montare la maizena

Facebook, Facebook
sono molto sexy
quando sono su Facebook
Facebook, Facebook,
ma nella vita reale...
mi faccio schifo.

Mi leggo tutte le mail, le pubblicità, gli spam,
leggo tutti i quotidiani online
i blog degli Indignados di Spagna,
ogni minuto il mio Mac fa ding!
Clicco e spedisco i miei commenti,
mi piace o non mi piace: è la mia opinione.
Non ho niente da dire, come non dirlo?
I miei piccoli nulla sono tutta la mia vita...

Facebook, Facebook,
ho un sacco di opinioni
quando sono su Facebook
Facebook, Facebook,
ma nella vita reale...
non sono che un buzzurro,

Sembro una couque di Dinant *
 non ho un gran look,
mi faccio schifo
e puzzo di caprone.

* Couque di Dinant: biscotto belga dalla forma ovale.

venerdì 22 marzo 2013

Un argentino a proposito di dio e dei poveri


DOMANDINE SU DIO

Un giorno io domandai :
Nonno, dove sta Dio ?
Mio nonno diventò triste,
e non mi rispose niente.

Mio nonno morì nei campi
senza pregare né confessarsi
e lo seppellirono gli indios
con flauto di canna e tamburo.

Dopo un po’ domandai :
Babbo, che sai di Dio ?
Mio padre diventò triste
e non mi rispose niente.

Mio padre morì in miniera
senza dottore né protezione.
Il colore del sangue del minatore
ha l’oro del padrone !

Mio fratello vive sui monti
e non conosce un fiore.
Sudore, malaria e serpenti
è la vita del boscaiolo.

E che nessuno gli domandi
se sa dove sta Dio :
da casa sua non è passato
un signore così importante.

Io canto sulle strade
e quando sono in galera
ascolto la voce del popolo
che canta meglio di me.

Se c’è una cosa sulla terra
più importante di Dio
è che nessuno sputi sangue
perché un altro viva meglio.

Dio veglia sui poveri ?
Forse che sì, forse che no.
Di sicuro, però, pranza
al tavolo del padrone.

- Atahualpa Yupanqui -

Preghiera dei pescatori



giovedì 21 marzo 2013

Germinale



Oggi è il primo Germinale.
Si riandasse un po' a strappare il cazzo ai servi dei padroni?

mercoledì 20 marzo 2013

Manganelli





Poiché non voglio fare sempre la disdicevole figura di quello che stappa bottiglie di spumante quando trapassa qualcuno -last but not least perché attualmente potrei permettermi al massimo una bottiglietta di limonata del discount- dirò che la notizia della morte naturale del capo della polizia, Manganelli, mi riempie di sincero dolore, superiore addirittura a quello di una manganellata addosso (se non la avete mai presa, cosa che mi auguro vivamente, garantisco che fa un male boia). Davvero non ho altre intenzioni che quelle di raccogliermi in silenziosa meditazione sulle umane sorti e sul mistero della vita e della morte, e di pregare affinché l'anima del fratello Manganelli possa accedere all'eterna beatitudine una volta equamente soppesati i suoi peccati e le sue virtù. Che riposi in pace e che abbia ora anche occasione di porgerle di persona le scuse, che so io, a Gabriele Sandri e ad altri; sono infatti convinto che le scuse postume, quelle di un vivo a dei morti, non vengano equamente recepite. Auspico anche che la presenza di un simile e dotato poliziotto in Paradiso riesca a far luce su certi traffici di aureole che, ultimamente, stanno turbando la sempiterna pace al pari di certi strani documenti riservati che hanno provocato parecchi problemi anche al futuro San Giuseppe Ratzinger: a parte le ovvie ricerche in Vaticano, sarà il caso di dare un'occhiata anche al piano di sopra. Singolare comunque, ma anche emblematico, che Manganelli, definito prontamente "un duro che sapeva sorridere" da "Repubblica", sia venuto a mancare esattamente il giorno dopo l'insediamento del nuovo "papa del sorriso": mi auguro che tutti 'sti sorrisi non portino jella, anche se "Repubblica" è giustamente famosa per questo (oltre che per l'elevazione della menzogna a specializzazione professionale). Addio, fratello Manganelli; mi mancherai, ci mancherai. Dove lo troveremo più, tra le altre cose, un capo della polizia col tuo cognome? Come potremo continuare a fare la pur scontata battuta del nomen omen? Chi ci regalerà ancora il piccolo buonumore che ci pervadeva ogni qual volta sentivamo nominare il questore Manganelli? Speriamo solo che, al tuo posto, vogliano nominare un questore Manetta o un commissario Galeri, ce ne saranno pure in polizia; ma sono questioni di poco conto. Veglia su di noi da Lassù, fratello Manganelli, magari almeno stavolta senza attivare la DIGOS.

martedì 19 marzo 2013

Thapsos


Canzoni Contro la Guerra compie domani dieci anni di vita. È un sito di cui sono "amministratore" praticamente da tutti questi dieci anni, ma di cui parlo -volutamente- pochissimo qui dentro, per non dire punto; non amo, qua dentro, fare pubblicità. Non ha nemmeno un link nel blogroll, per scelta; è una parte di me, almeno per quel poco che ancora frequento della Rete, ma è una parte diversa. In questa particolare occasione, però, vorrei raccontare una storia, che poi è tutta una serie di storie, che poi sono persone, o fantasmi, o esistenze; come è noto, sono del parere (molto ferreo, a dire il vero) che l' "inesistenza"...non esista. Con tanti auguri alle "CCG", un sito che alcuni apprezzano ed altri meno, come dev'essere per una cosa che, in dieci anni, è diventata tutto e il contrario di tutto. Tutto ha a che fare con una canzone, e ci sono canzoni capaci di avere a che non dico con tutto, ma con parecchie cose.



Canzoni Contro la Guerra ha dieci anni, e dieci anni fa ero Thapsos...

Ma andiamo con il famoso minimo d'ordine, certo.

Che cos'è Thapsos? Thapsos saliva su dal profondo, e quelle sillabe, Θαψός che bisognerebbe pronunciare con l'accento sulla “o”, Thapsòs e non Thàpsos, riescono ancora a farmi salire su parecchie cose. Thapsos è il tempo che scorre. Thapsos è una sovrapposizione. Thapsos è anche lo schermo di un computer quando ancora non si sapevano molte cose che sarebbero accadute dopo; ma questo, dicono, è normale. Thapsos è, infine, persino lo stridente stupore di un incontro lontano.

Thapsos è un antichissimo villaggio, situato su un'isola che isola non è più. Col tempo è stata unita alla terraferma da una sottile striscia di terra, formando quella che adesso è nota come “Penisola di Magnisi”, sulla costa a mezza strada tra Augusta e Siracusa. Il villaggio di Thapsos, di cui restano le rovine, è uno dei più importanti siti archeologici protostorici siciliani; risale alla media Età del Bronzo. Per capire meglio l'importanza che avrebbe, gli studiosi parlano addirittura di “Cultura di Thapsos”.


Inserito in ciò che era un ambiente naturale straordinario, Thapsos sarebbe dovuto essere il centro storico-culturale principale di tutta l'area. Ma sono soltanto sassi e rovine, improduttive pietre. Anni fa, l'intera aerea fu sottoposta a una pesantissima industrializzazione: il petrolchimico Montedison di Priolo Gargallo. In pratica, Thapsos e la Penisola di Magnisi si sono venuti a trovare nella zona industriale a nord di Siracusa, tra cemento, acciaio e petrolio. Tra fumi, miasmi e ciminiere. Thapsos è stata ucciso, e solo da poco -sembra- si è ricominciato a “valorizzarlo”; a lungo l'area archeologica non è stata neppure visitabile liberamente. Ma cosa si vorrà “valorizzare” in una situazione del genere, non è chiaro. Siamo nella stessa area, del resto, dove anche un intero paese, Marina di Melilli, fu raso al suolo per far posto all'espansione saturante del polo petrolchimico siracusano.


Il polo petrolchimico e la distruzione di Marina di Melilli.

Se Marina di Melilli fu distrutta e i suoi abitanti evacuati con la forza (alcuni si erano opposti, e l'ultimo abitante, Salvatore Gurreri, fu addirittura assassinato brutalmente), ci si può facilmente immaginare cosa importasse delle rovine di una civiltà fuori dal tempo. Il polo petrolchimico è enorme; in particolare, sulla Penisola di Magnisi sorse un impianto di estrazione del bromo dalle acque marine, la Espesi, poi chiuso negli anni '70 per dissesto finanziario. Alla fine degli anni '70, sul territorio costiero tra Augusta e Siracusa non c'era più un metro quadrato libero. Al posto di Thapsos: Enichem, Montedison, Rasiom (del famoso cavalier Moratti, quello dell'Inter), Liquigas, Chimica Augusta, Condea, Isab. Tutto sacrificato nel nome di quel mix tra affari, “sviluppo”, necessità di posti di lavoro, mafie e politiche; oltre a Thapsos, finiscono in quell'inferno anche i resti di Megara Iblea. La situazione odierna è che due terzi delle industrie chimiche sono chiuse, e la disoccupazione dopo l'illusione della “grande industria” si è accompagnata, come a Taranto con l'ILVA, ad una mortalità record per cause tumorali nella zona, ed in particolare per il tumore polmonare. Nelle urine della popolazione di Priolo Gargallo si riscontra una quantità di mercurio al di sopra della soglia consentita. La percentuale di bambini malformati nell'area è dell' 1,89% rispetto all'1,54% che è la media nazionale italiana; ma si sono avuti dei picchi, come nel 2000, quando a Augusta è nato il 5,6% di bambini che presentano malformazioni. Particolarmente orrende le malformazioni agli organi genitali, che interessano il 214 per mille dei neonati. Si tratta di dati dell'Organizzazione Mondiale per la Sanità.

Si tratta, in pratica, del capitalismo e della sua industria chimica. Si tratta del ricatto del “lavoro”, lavoro che poi, come sempre, è stato eliminato quando il mercato non ha più ritenuto convenienti i prodotti di quella data area. Si tratta della nascita e della morte di una classe operaia. Si tratta, infine, di un'amara vendetta; ora che la chimica agonizza, si torna a cercare di riqualificare la costa per farne delle “località balneari” in mezzo alle ciminiere; e ci si accorge di Thapsos in una terra in cui persino una chiesa è dedicata a “San Giuseppe Operaio”.

Nel 2000, per i “Dischi del Manifesto”, il toscano Riccardo Tesi e la sua Banditaliana (con Maurizio Geri che sono lieto di conoscere di persona) realizzano, a dir poco, un capolavoro assoluto. Un disco che prende nome da Thapsos, e che è aperto proprio dalla canzone, stupenda, che qui si presenta. Il cui testo è stato scritto dal siciliano Carlo Muratori.

Sale su, dal profondo
E il ricordo che mi assale è un brivido
Dove sei, mi confondo
Un sentiero vedo e un velo candido

Ritorna solo ciò che può
Quel che vale prima o poi quel che merita
Riluce un labbro su di me
Su un tramonto a Thapsos
Che ci insanguina

Dónde estás María
Bianche pietre ora schiacciano l'edera
Dónde estás María, dónde estás
Dónde estás María
Le ringhiere invase da bougainville
Dónde estás María, dónde estás

Batterò pietre e mandorle
Fino a sera questa sera sognerò

Ritorna quando lo vorrai
Quel tramonto resta qua
Abita a Thapsos
Rimane muto senza te
Anche il canto del mio mare
Che ci tumula.

E' una canzone che torna alle radici del tempo, dove il ricordo sembra scorrere fino nelle sue pieghe più remote; come se, davanti allo scempio di Thapsos, il Ricordo e la Storia fossero la medesima cosa. Il Ricordo, la Storia e il Mare.

Mi fece conoscere questa canzone, e l'intero album, una persona che, allora, abitò brevemente a casa mia. Pochi mesi. Teneva là anche alcuni dei suoi cd. Volevo molto bene a quella persona, allora; fu amore al primo ascolto anche per quest'album. L'oggettività mi impone di dire anche che quella persona aveva (e, presumibilmente, ha ancora) una singolare capacità nell'individuare fiori nel letame (per dirla con De André) per quanto riguarda le arti musicali e cinematografiche. Arrivai quindi, ad un certo punto, a chiamarmi anche “Thapsos”. Dieci anni fa esatti. Tanto mi ero compenetrato con questa canzone, nella quale c'è un'isola; e quando ci sono di mezzo le isole, io ci sono.

Chiamarmi “Thapsos”? Non sto a raccontare tutta la storia, sarebbe troppo lungo. Eravamo un gruppo di persone che ci eravamo conosciute, tutte, in una Internet che ora fa la stessa impressione dell'Età del Bronzo della penisola di Magnisi. Ci vedevamo, ogni sera, su un “canale IRC”; in epoca di social networks, parlare di un canale IRC potrebbe sembrare davvero tornare alla preistoria delle relazioni in Rete. Ma così è, e nascevano anche allora amori e odi, discussioni e risate, lacrime e ire, momenti di pace e momenti di guerra. Su quel canale IRC entravo con il “nickname” di “Thapsos”; così ho parlato per la prima volta anche con... beh questo non ve lo dico.

Salivo su dal profondo. Salimmo su dal profondo, e nel profondo ad un certo punto siamo più o meno tornati tutti quanti. Anche da questo deriva la mia avversione totale per “Facebook”: non mi piace suscitare artificialmente un passato che è passato. Se dev'essere, che sia il passato a voler tornare, ma che le sue traiettorie rimangano insondabili e imprevedibili. Nulla le deve toccare per capriccio. Così è accaduto per ognuna di quelle persone che conoscevo, alcune delle quali, chi in senso lato e chi in senso diretto, entrano anche con questo sito che compie, appunto, dieci anni. Nato dalla stessa cerchia, o dalla stessa materia prima, o dagli stessi incroci semisegreti. Nato anche da Thapsos; così per quella persona di cui parlavo prima, nata esattamente da quelle parti e verso la quale...no, non vi dirò nemmeno questo. Se tutto ha un senso, però, mi ricordo che l'ultima volta che ho avuto modo di parlarci, uno di quei giorni prima che costellano la vita di tutti, è stato in un locale dove si esibiva proprio l'autore del testo di questa canzone: Carlo Muratori. Così va la vita, e ho pure il fondato sospetto che debba andare proprio così e, in ogni caso, come vuole lei.

Dieci anni dopo, eccomi qua. E vorrei dedicare questa cosa in primo luogo a quella persona che mi vide entrare, una sera, scontrosamente sul canale IRC come “Thapsos”. Vorrei dedicarla a tutti coloro che ancora oggi sono qua. Vorrei dedicarla al tempo che passa, torna, ripassa e ritorna. E vorrei dedicarla ad un sogno che non muore, di cui anche questa è una parte.

Due pianeti


Sarò scusato se ripropongo questa foto, chiamiamola "incriminata". Ma no, certo, per carità, quello che dà l'ostia santa a Videla non è mica Bergoglio; sarà Pio Laghi, sarà qualsiasi altro alto prelato, basta che non sia el papa Francisco. Quindi, come si suol dire, "ci sono cascato" (assieme ad altri, non so francamente se pochi o parecchi); e questo "cascarci", che ha provocato peraltro levate di scudi planetarie, ha rimesso finalmente le cose al proprio posto. A questo punto, chissà, una volta appurato l' "errore", dovremmo pure cospargerci (cristianamente assai) il capo di cenere, chiedere moralmente scusa al sommo pontefice per averlo accostato a una delle dittature più sanguinarie che il mondo abbia visto di recente, e magari bruciare anche il libro di Verbitsky e rispondere con un "sia lodato gesù cristo" all' "amén" di Hebe de Bonafini. 

Ma, direi, le cose non possono certo fermarsi qui. Come scrive ad esempio Sabrina Ancarola, bisognerebbe inserire nel nostro cammino a Canossa tutta un'ulteriore serie di elementi di pentimento e contrizione. Occorrerebbe, ad esempio (uso qui le parole della stessa Ancarola), comprendere l'importanza del rappresentante della chiesa di Roma, la cui influenza potrebbe essere positiva per milioni di persone; un giorno o l'altro, però, bisognerà anche cercare di comprendere tutta questa smania che i "non cattolici" hanno di giocherellare a fare gli ecumenici; un giochetto nel quale parecchi cosiddetti "laici" sono maestri, e nel quale mi pregio di aver smesso da tempo di cascare. Per foraggiare questa propensione latente all'ecumenismo, del resto, basta poco: un "buongiorno" detto all'Angelus, un saluto al fratello di una giovanissima cittadina vaticana fatta sparire nel nulla, una camminata, delle normali scarpe al posto di quelle rosse di Ratzinger e, ovviamente, gli immancabili "poveri" (ammesso e non concesso che le "scarpe normali" costino di meno di quelle rosse; io continuo a dubitare che Bergoglio le abbia comunque acquistate al mercatino di Porta Portese).

Visto che in questo nostro illuminato cammino di comprensione dobbiamo, giustappunto, comprendere bene, sarebbe opportuno chiarire un po' meglio anche 'sta storia dei poveri. Io non vorrei dire, però ho già una certa età e di papi comincio ad averne visti un certo numero; e non m'è mai capitato di sentirne uno, neppure Ratzinger, dire "io sono il papa dei ricchi". Tutto il cattolicesimo è fondato sui "poveri", fin dalle origine; ai poveri è riservato il regno de' cieli, la ricompensa ultraterrena;  non esiste rappresentante della chiesa cattolica che non "parli di poveri". Ma per carità, non voglio spingermi oltre e rovinare ulteriormente l'idillio dei primi giorni a coloro che credono nei "cambiamenti" a base di papi e presidenti delle camere; debbo anzi fare rifornimento, perché sennò rischio di rimanere senza cenere e, ultimamente, la cenere greggia è aumentata un tanto al barile. 

In definitiva, i "primi giorni" sono probabilmente un periodo fecondo di grandi "speranze", e ciò mi corrobora nel mio forte desiderio di sparare a vista alla "speranza" e a tutte le sue viscide trappole. In questi giorni si vede benissimo tutto il querulo concorso di coloro che "sperano", i quali non esitano nemmeno un momento nel ribadire le loro incontenibili contentezze e nel far passare nel tritatutto anche la pur vaga possibilità che tutti questi personaggi abbiano degli scheletri nell'armadio. Trincerarsi dietro un non posso saperlo è parecchio comodo, anche perché, come si suol dire, "ci mette una pietra sopra"; chissà, forse sarà quella sopra la quale è stata edificata l'intera chiesa cattolica. Infatti, chi oserà d'ora in poi mettere anche nel minimo dubbio il Verbo ufficiale? Gli "speranzosi" esultano per la scoperta del "vile tentativo" di far passare per il papa quello che dà la comunione al dittatore; scampato pericolo, ora si può finalmente sperare a man bassa assieme alle presidentesse degli "alti commissariati" ONU, ai magistrati "antimafia" e alle marcette oceaniche tutte legalità, buoni sentimenti e repressori. 

Siamo, evidentemente, su due pianeti parecchio lontani; e ultimamente non mi riesce stare altro che sul mio e di quelli come me. Coi pianeti "non incattiviti" non ho semplicemente nulla a che vedere; non è questione di odio, ci mancherebbe, ma di mancanza totale di collegamenti. Visto che si parla di pianeti, mettiamola in termini di anni luce, di parsec. Sul mio pianeta, magari, si casca nelle fotografie inesatte; ma si sa bene in che cosa si va a cascare quando si cominciano a fare i discorsi sulla "buona volontà" e roba del genere, e quando le celebri "speranze" vanno sempre a rifinire nelle "istituzioni" di merda, che si chiamino chiesa o parlamento. Ve le potete tenere assieme a tutta la vostra bontà, ai donciotti, ai papipòveri con le scarpine normali e agli alti rifugiati eletti coi delatori di SEL; si vedrà poi, chi ci sarà cascato di più. 

Sul mio pianeta incattivito, invece, le cose si risolvono in altro modo, ad esempio con la pretaglia:


"A partire dal 10 maggio 1931, a Madrid, Córdova, Siviglia, Bilbao, Alicante,  Málaga, Granada, Valencia, Algeciras, San Roque, La Línea, Cadice, Arcos de la Frontera, Huelva, Badajoz, Jérez, Almeria, Murcia, Gijón, Teruel, Santander, La Coruña, Santa Fé, ecc., la folla ha incendiato le chiese, i conventi, le università religiose, ha distrutto le statue, i quadri che questi edifici contenevano, ha devastato gli uffici dei giornali cattolici, cacciato tra le grida i preti, i frati, le monache che in fretta e furia passano le frontiere. Cinquecento edifici distrutti finora  non chiuderanno questo bilancio di fuoco. Opponendo a tutti i roghi eretti nel passato dal clero spagnolo il grande chiarore materialista delle chiese incendiare, le masse sapranno trovare nei tesori di quelle chiese l’oro necessario per armarsi, per lottare e trasformare la Rivoluzione borghese in Rivoluzione proletaria. Per il restauro di Nostra Signora del Pilar a Saragozza, ad esempio, la sottoscrizione pubblica di venticinque milioni di pesetas è già coperta per metà: si esiga questo denaro per i bisogni rivoluzionari e si abbatta il tempio del Pilar dove da secoli una vergine serve a sfruttare milioni di uomini! Una chiesa in piedi, un prete che può officiare, sono altrettanti pericoli per la Rivoluzione.
Distruggere con ogni mezzo la religione, cancellare fin le vestigia di quei monumenti di tenebre dove si sono prosternati gli uomini, annientare i simboli che un pretesto artistico cercherebbe invano di salvare dal grande furore popolare, disperdere la pretaglia e  perseguitarla nei suoi ultimi rifugi, ecco ciò che, nella loro comprensione diretta dei compiti rivoluzionari, hanno intrapreso di loto iniziativa le folle di Madrid, Siviglia, Alicante, ecc. Tutto ciò che non sia violenza quando si tratta di religione, dello spaventapasseri che è Dio, dei parassiti della preghiera, dei professori della rassegnazione, è paragonabile al patteggiamento con quel verminaio del cristianesimo che deve essere sterminato." 

Benjamin Péret.

domenica 17 marzo 2013

Sedici marzo



Se vado ad una manifestazione (ma credo che, per quella che si è svolta ieri a Milano per il decimo anniversario dell'assassinio di Davide "Dax" Cesare da parte di tre fascisti, il termine sia quantomeno riduttivo), usualmente non mi piace eseguire né dei resoconti, né dei racconti. Non c'è nulla da rendicontare o da raccontare, anche se durante un corteo militante di cose, piccole e grandi, ne accadono a decine, a centinaia. Anzi, mi spingerei a dire che, se eravamo in diecimila come s'è scritto da più parti (anche, in alcuni casi, nei media di regime), le cose accadute sono pari a ciascuno dei partecipanti, ad ognuno dei compagni e delle compagne che, da tutto il Paese, sono saliti a Milano per farsi nove chilometri di marcia niente affatto tranquilla e indolore. Anche per questo non racconto nulla; tra i lettori più o meno "assidui" di questo blog ce ne sono infatti alcuni cui piace molto stampare alcuni articoli per depositarli sulla scrivania di qualche "grande capo", come ho avuto modo di constatare direttamente a partire da qualche tempo fa. 

Sedici marzo. Compagni ammazzati / I morti sul lavoro / Che cazzo ce ne frega / A noi di Aldo Moro. Qualcuno si è ricordato anche ieri di questa data, urlando questo slogan durante il corteo. Ero dietro allo striscione di Firenze Antifascista, mentre proprio a Firenze sfilavano in pompa magna certi repressori togati che rappresentano alla perfezione lo "spirito" di quella sottomarca di "sinistra" tutta magistrati e "legalità" che fa benissimo, direi, a confondersi con i Mandaingalera, in modo da poter tirare fuori le loro bandierine e i loro tricolori. A Milano c'era invece non soltanto chi fa antifascismo, ma chi sa erigere ancora una barricata invalicabile davanti a lorsignori e alla loro amata "legalità" di assassini. Ci sarà perdonato se ancora, in modo ostinato e, più che altro, non più supportato da alcun "clima favorevole" (a parte quello atmosferico, che ieri a Milano ha consegnato una giornata di sole e quasi primaverile), non ci limitiamo a presenziare ai funerali dei compagni ma cerchiamo di tenere presente che di compagni ne vengono ammazzati tuttora. Tutto questo riconoscendo, ovviamente, che parecchi di coloro che nel mese di gennaio sono andati a Coviolo davanti alla bara di Prospero Gallinari erano anche ieri a Milano in mezzo a tutti, per Dax ucciso a 26 anni a un angolo di strada. Oserei dire che tra i presenti, anzi, c'era anche Prospero. Come vederlo. Come sentirlo.


Passando davanti a quell'angolo di strada, in via Brioschi, m'è venuto da pensare ai luoghi in cui ti può cogliere la morte fascista. Un posto anonimo nella Metropoli, nulla di simbolico nemmeno a cercarlo, un marciapiede da borse della spesa o da bar per un caffè fatto male. Si sentiva parlare di "neofascisti", ma a me quel prefisso, "neo-" non è mai piaciuto. Se significa "nuovo" vorrebbe indicare uno stacco che, in realtà, non c'è e non ci può essere. Sono sempre quelli e sono sempre loro, né vecchi e né nuovi. Sono quelli di sempre, coi loro "tricolori" di merda che, peraltro, condividono sempre di più con chi li ha così ben foraggiati, propagandati e fatti sentire liberi di agire. E così si prosegue nell'azione, quotidiana, senza sosta, senza tregua anche quando non appare. Quello di ieri non è stato uno di quei cortei "allegri e colorati" che piacciono tanto a quelli che, poi, esplicano mirabilmente la loro "allegria" nella delazione, nella menzogna e nel collaborazionismo fattivo con lo Stato e con la sua polizia. Quelli è bene che vadano a sfilare coi donciotti e coi Casellon de' Caselloni. Non era allegro il corteo, e si toccava la tensione; la quale ha avuto modo di essere tradotta in un linguaggio che bisognerebbe ricominciare a usare quotidianamente, con tutta la sua grammatica e la sua sintassi. L'ho sentito ben parlato, ieri, quel linguaggio a Milano; e lo deve aver capito abbastanza bene anche il borgomastro Pisapia, che fa una rima sempre migliore con "ipocrisia". Niente di cui stupirsi, quando si fa capire con le buone o con le cattive che un compagno ammazzato continua a vivere soltanto a condizione di continuare la lotta. Nella Metropoli come ovunque. Chi dice "Dax vive" deve sapere bene che cosa significa, altrimenti rischia solo di fare uno sterile esercizio retorico. Chiudo qui. Si va avanti, con le immagini di ieri negli occhi, con una Milano restituita, e con una data parecchio importante.

giovedì 14 marzo 2013

La tradizione



Se non riconoscete i due personaggi nella foto, sarà necessario dare un piccolo aiuto.

La foto, di qualche tempo fa, mostra un sacerdote che somministra la Santa Comunione ad un fedele, naturalmente. Il fedele in questione si chiama Jorge Rafael Videla, e di mestiere faceva il membro della giunta militare argentina al potere dal 1976 al 1982. De facto, fu presidente e dittatore dell'Argentina fino al 1981, quando fu sostituito dal generale Leopoldo Galtieri.
Desaparecidos, matite spezzate, lanci degli oppositori dagli aerei (senza paracadute, ovviamente), torture; il tutto con la santa benedizione delle alte gerarchie cattoliche argentine (e non solo).

Il sacerdote, quello che infila l'ostia in bocca a Videla, si chiama invece Jorge Mario Bergoglio, e da qualche ora di mestiere fa il Papa, o Sommo Pontefice di Santa Romana Chiesa, cattolica e apostolica, con il nome di "Francesco I".

Sarebbe quello che dovrebbe "riformare" la chiesa, oltre ad essere un gesuita. Curiosa questa cosa: i gesuiti, che hanno come princìpi fondanti la fedeltà assoluta al Papa, perinde ac cadaver, e la supremazia totale del potere papale su tutti gli altri, esprimono ora direttamente il pontefice. Hanno sia il "papa nero" (così è detto, come è noto, il generale dei Gesuiti per l'immenso potere che già di per sé esercita), sia quello bianco. Sarà, chissà, il papa bianconero; chissà come saranno contenti gli juventini.

E così, in mezzo a tutte codeste "riforme", la tradizione è rispettata in pieno. Storie di chiesa e potere, supremazie e camarille, ostie in bocca ai peggiori dittatori, balconi e balconcini:


Descrivono il Bergoglio come "persona parca e riservata". Sicuramente riservatissimo lo fu durante il periodo della dittatura; talmente riservato da starsene zitto zitto. Mentre il nunzio apostolico, il famoso Monsignor Pio Laghi, benediceva a dritta e a manca i militari che massacravano e facevano sparire, peraltro, anche numerosi sacerdoti e religiosi cattolici, il nostro "Francesco I" taceva. Taceva? Beh, il termine non è propriamente esatto. Vediamo che cosa ci dice al riguardo publico.es (la seguente traduzione parziale è invece tratta da Canzoni Contro la Guerra, dalla pagina dedicata a La Memoria di León Gieco):

"Jorge Mario Bergoglio, ex arcivescovo di Buenos Aires, eletto papa con il nome di Francesco I, è un gesuita nato nella capitale argentina il 17 dicembre 1936 ed ha dedicato buona parte della vita all'insegnamento. Bergoglio ha un passato oscuro in Argentina per le accuse che gli furono rivolte anni fa circa la tortura e la sparizione di un laico e due sacerdoti ai tempi della dittatura militare che cominciò nel 1976. Nonostante non si sia raggiunta una sentenza sul caso, cinque testimoni hanno confermato il coinvolgimento del nuovo papa con queste sparizioni. Il giornalista Horacio Verbitsky è stato il ricercatore più attivo nel portare alla luce le prove che potessero dimostrare il coinvolgimento di Bergoglio con questi episodi della "guerra sporca" in Argentina. Ciò nonostante, le relazioni di Bergoglio con la dittatura non sono finite qui.  Più recentemente le Nonne di Plaza de Mayo lo hanno chiamato a testimoniare davanti alla giustizia argentina per la sua presunta implicazione nel rapimento di bambini; citando in particolare il caso della nipote di Alicia "Licha" de la Cuadra, una delle fondatrici della associazione. "


Canta precisamente León Gieco nella sua stupenda e famosissima canzone: Fue cuando se callaron las iglesias / Fue cuando el fútbol se lo comió todo / Que lo padres palotinos y Angelelli / dejaron su sangre en el lodo. Fu quando tacquero le chiese, fu quando il calcio si mangiò ogni cosa, che i Padri Pallottini e Angelelli  lasciarono il loro sangue nel fango. I Padri Pallottini si chiamavano Alfredo Kelly, Alfredo Leaden, Pedro Dufau, Salvador Barbeito e Emilio Barletti e furono assassinati da uno squadrone della morte della giunta; monsignor Enrique Angelelli era addirittura un vescovo (di La Rioja), assassinato sabotandogli l'automobile. E il nostro riservato gesuita nonché neopapa? Taceva. Anche quando ne ammazzarono un altro, Carlos Ponce de León, vescovo di San Nicolás. Quanto al calcio, tutti i media di tutti i regimi del mondo ci fanno sapere che il Bergoglio è appassionato di pallone e addirittura iscritto come socio al San Lorenzo de Almagro. Fue cuando el fútbol se lo comió todo, y sigue comiéndoselo, direi.

Per il resto la solita zuppa, tra cui gli immancabili rigori antiabortisti e omofobi che hanno, fra le altre cose, portato a rapporti freddissimi sia con l'ex presidente argentino Néstor Kirchner, sia con la sua succeditrice, la moglie  Cristina Fernández de Kirchner. La quale sarà, però, presente martedì prossimo all'investitura in San Pietro e che ora spedisce giùbili di felicitazione. Fra presidenti e papi prima o poi ci s'intende, su.

Come è quasi logico che sia, il Bergoglio riservato s'è rifatto una verginità (morale, chiaro, morale) coi "poveri". Dicono che sia molto "attento ai problemi sociali dei più deboli"; non per niente ha voluto chiamarsi "Francesco". E così sono tutti felici e contenti, "Repubblica" in queste ore sembra l'Osservatore Romano, calciatori, soubrette, politici, stilisti e ballerine fanno a gara nel papeggiare, a Milano l'hanno preso nel culo perché sembrava ormai fatta per Angelo Scola, e dopo il polacco mediatico sui balconcini con Pinochet, dopo il tedesco della Hitlerjugend, ora eccoci col gesuita che taceva mentre dei militari assassini, appunto, assassinavano. Sarebbe quello che dovrebbe "riformare" e rappresentare la "rottura". Diteci, per favore, se dobbiamo ridere, o cosa.

mercoledì 13 marzo 2013

Dopo il corteo antifascista del 9 marzo: alcune valutazioni


Nota del blogger. In questo caso, il presente blog ritiene opportuno riprendere il comunicato emesso da poco da Firenze Antifascista riguardo alla manifestazione di sabato scorso, condividendolo. Chi scrive ha comunque partecipato a tutte le riunioni preparatorie del corteo antifascista del 9 marzo (nonché al corteo stesso) e può quindi confermare tutto ciò che viene affermato nel comunicato in questione. Un originale del comunicato si trova sul blog del Centro Popolare Autogestito Firenze Sud, ma non si nutre alcun dubbio che verrà ripreso anche dalle altre realtà che, più che "formare" Firenze Antifascista, in essa (ma non soltanto in essa) esplicano quella pratica quotidiana dell'Antifascismo militante in questa città, la quale si contrappone a quello che, giustamente, nel comunicato viene defiinito "antifascismo perdente" e che il sottoscritto non esita a chiosare ulteriormente come assai più vicino al fascismo che del resto ha foraggiato e continua a foraggiare. NB. Nel riprodurre il comunicato, introduco soltanto una paragrafazione per aumentarne la leggibilità, ed alcune sottolineature di passi che ritengo opportuno mettere in maggiore evidenza.

Come Firenze Antifascista, viste anche le dichiarazioni sulla stampa e il comunicato di Silvano Sarti, crediamo necessario intervenire rispetto al corteo antifascista di sabato scorso. Un corteo, sottolineiamo, partecipato da circa 1500 persone, studenti, lavoratori, militanti e semplici cittadini, che hanno contrastato ancora una volta la presenza dei fascisti nella nostra città. 

Il corteo è stato lanciato preparato e autofinanziato, come ormai da anni, da Firenze Antifascista, coordinamento di realtà politiche, sociali e studentesche di cui fanno parte anche diversi circoli territoriali dell'ANPI. Questi circoli hanno proposto all'ANPI Provinciale ed al suo presidente Sarti, di aderire formalmente all'iniziativa. Appare quindi sconcertante, diremmo anche ridicola oltre che in palese malafede, la ricostruzione che Sarti fa della nascita della manifestazione, sostenendo che l'ANPI provinciale ne fosse il promotore. Così come appare sconcertante che dica di aver preso la testa del corteo proprio quando sono stati i compagni di Firenze Antifascista a chiamarlo per fare un intervento in cui ha detto: "Noi non abbiamo mai cambiato nome in settanta anni. Voi siete quello che rappresenta l'antifascismo oggi". Ma con chi pensava di parlare? Con i manifestanti di Firenze Antifascista o con il Pd-Ds-Pds-Pci? mah… E per ultimo, sembra assurdo che sempre il Sarti si lamenti della strumentalizzazione della stampa e del fatto che non si sia parlato del corteo ma solo delle polemiche...proprio lui che si è lasciato andare a dichiarazioni indecenti… 

Nella fase preparatoria del corteo era stato chiarito che non sarebbero state gradite le bandiere di quei partiti che hanno di fatto legittimato la presenza dei neofascisti nella politica italiana.
In nome della cosiddetta “memoria condivisa” i dirigenti del PD hanno appoggiato al pari di Storace, Berlusconi, Totaro e Meloni l’istituzione del Giorno del Ricordo. Hanno legittimato la presenza delle sedi dei neofascisti e le loro iniziative pubbliche in nome della “libertà d’espressione”. Sono arrivati a cercare di spiegarci le ragioni dei cosiddetti “ragazzi di Salò”. In questa città l’assessore Giani nel 2007 e 2009 assistette addirittura alla commemorazione in Largo Martiri delle foibe ricevendo il ringraziamento di Donzelli. In questa città Renzi ha legittimato la presenza della sede di Casa Pound a pochi mesi dalla strage di Piazza Dalmazia. Ci domandiamo quindi se le militanti del PD non abbiano per caso sbagliato partito!
Nonostante l'apporto di PD e SEL all'organizzazione di questa giornata fosse stato pari a zero, in piazza pretendevano di sventolare le loro bandiere.
Dopo l'invito a toglierle ne è nata una breve discussione che non è mai sfociata in qualcosa di più delle parole: quando il corteo ha iniziato a sfilare le militanti del PD e di SEL hanno deciso volontariamente - come da loro stessi affermato - di andarsene, assieme a quei pochi che evidentemente si sono sentiti di troppo. 


La presenza solitaria del segretario CGIL Fuso e della neo parlamentare di SEL Chiavacci (ci chiediamo dove fossero i numerosi militanti antifascisti di CGIL e SEL) arrivati con il Sarti, già con fare arrogante e provocatorio con la volontà di mettersi davanti al corteo e subito pronti a scatenare la gazzarra e poi pronti ad andare via con al seguito solo il codazzo di qualche giornalista., dimostra con chiarezza la strumentalità della loro presenza.
Ed è bene ribadirlo: da quella piazza se ne sono andati in cinque!
Chi, come la Gazzetta del PD (alias La Repubblica) parla addirittura di purghe (!!) era evidentemente in piazza solo per garantire visibilità alla provocazione. Una provocazione messa in piedi per attaccare chi, con una pratica antifascista chiara, attuale e non celebrativa, riesce ancora ad avere radicamento e consenso in questa città.
 

Non stupisce in questo senso il ruolo di servitù svolto da Repubblica fin dai primi minuti successivi alla partenza del corteo, con il suo giovane redattore prono a svolgere il ruolo affidatogli fino ad inventarsi un gruppetto di ragazzi che derideva il partigiano, né stupisce quanto trasmesso il giorno dopo da Controradio (che sarebbe l'ora togliesse quel “contro” davanti…): una radio che si vanta di essere alternativa ma che non è in grado di mandare neanche un collaboratore in una piazza come quella di sabato per poi raccogliere le veline della Gazzetta del PD facendole proprie.
Ma che vogliamo… bisogna pur mangiare e se i soldi arrivano da PD, Regione e Comune, un mediocre come il direttore Bufano è ben contento di fare un buon servizio ai suoi padroni, impedendo addirittura ad un partigiano dell'ANPI, "Sugo", attivo in Firenze Antifascista, di intervenire perché avrebbe rotto lo schema “cattivoni” contro partigiani.
 

La verità è che esiste un antifascismo perdente, triste, celebrativo, da corona d'alloro, buono solo per appuntarsi una medaglina sul petto accompagnandosi al partigiano di turno. Che si trascina da decenni tra una cerimonia e l'altra, senza più un minimo di partecipazione, mentre in Italia ed in Europa crescono cultura, organizzazioni politiche e spinte dichiaratamente neofasciste. Un antifascismo che fa comodo al sistema, conservativo, cui però si contrappone un antifascismo scomodo, non istituzionale, che fa della presenza sul territorio la propria bandiera.
C'è chi ancora, non ce ne voglia Sarti, crede esista un arco costituzionale e pensa di essere rimasto al 1948: andrebbe spiegato a lor signori che solo alle ultime elezioni i partiti dichiaratamente fascisti erano almeno 4 e che non passa giorno in cui non si dica che il fascismo delle origini era buono (quale, quello che bruciava le camere del lavoro?), che Mussolini ha fatto le bonifiche, che il fascismo non era razzista fino al '38 ed altre amenità del genere.
 

Preferiscono attaccarci e dare a noi di “fascisti” quando per anni hanno taciuto sulle prepotenze e le ingiustizie compiute dai fascisti… quelli veri. Commemorano poi chi dai fascisti fu trucidato 70 anni fa e fingono di non vedere che i fascisti uccidono ancora oggi come nel caso di Dax, ucciso 10 anni fa a Milano, di Nicola, ucciso a Verona, o di Renato, ucciso ad Ostia.
Dov'erano il PD, l'ARCI e la CGIL quando i fascisti giravano armati di bastoni per il centro di Firenze? Dov'erano quando CasaPound cercava di distribuire il pane al Galluzzo? E quando aprì la sede? Dove sono quando i fascisti vanno a cercare di intimidire i compagni dei collettivi davanti alle scuole? E la lista sarebbe ancora lunga…
Dov'erano insomma tutti questi solerti democratici quando c’era bisogno di denunciare le peggiori nefandezze compiute dai fascisti? Assenti. Non pervenuti. Sono riapparsi tutti assieme quando c’è stato da difendere due bandiere di partito!
 

Al blocco politico composto da CGIL, ARCI, PD, SEL evidentemente non è rimasto altro che qualche mezzuccio provocatorio per avere qualche titolo e queste misere provocazioni evidenziano la natura del loro totale smarrimento e la pesante difficoltà di consenso specialmente tra quelle nuove generazioni che si sono viste “barattare” il futuro con i diktat europei in nome dello spread e del profitto e che proprio per questo sono in piazza pronte a lottare.
Sabato scorso in corteo con Firenze Antifascista c’erano tantissimi di questi giovani, insieme a lavoratori e antifascisti di ogni età. Noi non abbiamo bisogno di usare mezzucci per trovare spazi, noi i nostri spazi li conquistiamo e li difendiamo giorno per giorno.
Noi l'antifascismo lo pratichiamo quotidianamente, noi non dobbiamo ripartire.
Noi non abbiamo bisogno di pensare a cosa fare il prossimo 25 aprile: il 25 aprile lo organizziamo già da tempo e anche quest’anno saremo in S.Spirito nella nostra storica piazza insieme a tutti coloro che si riconoscono nella Resistenza di ieri per combattere il fascismo di oggi.

Firenze Antifascista