martedì 27 marzo 2012

Le avventure di Gelsomino, feto birichino


Un bel giorno che si era un po' annoiato di stare dentro in pancia, Gelsomino, feto birichino, decise di approfittare del babbo separato che stava strangolando la mamma per amore e se ne uscì con un bel salto: hòòòòp!

- Ohi, budellodèva vant'è àrto, fra pòo mi stiaccio da solo! -, disse Gelsomino mentre la mamma rantolava e il babbo si faceva intervistare dalla Vita in Diretta; trovato fortunatamente un curioso arnese tagliente con sopra scritto Gott ist meine Treue (con il quale il babbo contava di completare l'opera), riuscì a tagliare il cordone ombelicale facendoci poi un nodo con le manine, e s'incamminò per il vasto mondo.

Com'era bello, il mondo! Gelsomino provava tanta gioja nel vedere le vetrine colorate, le macchine, i bimbi già nati, le merde di cane sul marciapiede e le fotografie di Justin Bieber mentre s'infilava un microfono nel culo; solo che doveva fare parecchia attenzione, perché era piccino picciò e rischiava d'essere spiaccicato a ogni pie' sospinto. Inoltre era parecchio brutto, e se ne rese conto quando sentì una bimba che diceva alla mamma: - Dé mamma, o cos'è quer troiaio che cammina? Sarà mìa ir fratello brutto der Tamagòcci? -

Cammina cammina, Gelsomino, feto birichino, arrivò a Firenze. Era una bella città, Firenze: grande grande, piena di monumenti, ricca di chiese e di palazzi. Arrivato che fu vicino allo stadio, che da poco aveva ripreso l'antico nome di "Giovanni Berta", gli prese voglia di fare una pisciatina; s'infilò in una strada laterale, guardò che non ci fosse nessuno, s'addossò a un portone e s'accinse a farla. Ebbe però un piccolo momento d'incertezza sul come; essendo un piccolo feto, ancora non sapeva bene se aveva la fessurina o il pisellino. Dopo qualche secondo, sentendosela scappare parecchio, si risolse comunque con una frase salomonica: - M'importa 'na sega, la farò dar culo che 'ntanto 'vello celò digià! -

Mentre era lì che la faceva con passione, Gelsomino sentì dei rumori e delle voci agitate sortir fuori dal portone. Alzò gli occhietti ancora allo stadio semiembrionale, e vide che sulla porta c'era una strana scritta, Casa qualcosa con un accento; dall'uscio vennero fuori cinque o sei ragazzotti urlando come ossessi: -O te, brutto bùho d'un comunista di merda, ettù ci sta' pisciando su i' portone! -

Gelsomino, sorpreso da tutta quella popo' di reazione a un'innocente pisciatina, abbozzò una timida e gentile risposta: - Dé, prima di tutto niente risposte sessiste che ancora ir sesso 'un celò, eppòi 'osa ciài te contro i 'comunisti, popo' d'un lezzume fascista..?!? -

I ragazzotti, esterrefatti, lì per lì non capirono da dove venisse quella vocina; poi uno di loro, chinandosi, vide quel cosino che, intanto, continuava a farsi la sua sacrosanta pisciatina. Farfugliando qualcosa, il tizio esclamò ai suoi compari: - Cazzo, hameràti...ma questo 'e gli è un FETO! Ciaveva ragione i' papa a dì che gli ènno già vivi! E voàrtri 'e un vu' ci volevi créde'! -

- Ciavète 'varcosa 'ontro i feti, voiàrtri? -, chiese Gelsomino ricomponendosi tutto soddisfatto, mentre un rigagnolo di piscio amniotico colava dans le caniveau. - No, no....anzi...noi s'è pe' la difesa della vita...un crìmine...ma dimmi, qualche sgualdrina antagonista, feccia delle zecche, t'ha forse abortito strappandoti dal suo ventre benedetto? -

Gelsomino ci stette un momento a pensare, poi gli disse:

- Senti 'n po', prima di tutto sgualdrina sarà quer popo' di budellone di tu' ma' che magari arzomiglia pure a donn'Assunta, 'vella 'e la 'iàmano donna perché sembra un òmo, e poi me ne so' andato io pe' conto mio perché m'ero annoiato di stà laddentro. Poi 'un ciò capito un cazzo di quer che ha' detto, sarà mìa' percaso ir Torzelli?... -

Ora, si dà il caso che lo fosse; e l'infradetto, non sapendo se esser lusingato dal fatto che lo conoscessero persino i feti o parecchio contrariato che lo si associasse alla più cupa incomprensibilità, gli rispose: - Oh...senti...noi 'e ti si perdona che ciài pisciato su i' portone di Casaggì, però che t'andrebbe d'iscrìvetti? Un feto autèntiho 'e ci farebbe parecchio comodo! -

Gelsomino, il quale sarà stato sí piccolino ma che non era per nulla scemo, subodorò immediatamente la propaganda; e fu così che proruppe in una decisa e fiera esclamazione:

- Dé, io 'scrìvemmi a 'sta banda di cialtroni?!? Ma 'un lo vedete come siete conciati, tipo 'vell'àrtro lì cogli spillini (nell'ordine) di Bobbisènz, della Vandea, delle Frecce Triolori, de' Palestinesi e di Adolf Eichmann mentre 'ni tirano ir collino? Io so' un feto serio! Già mi toccherà stàmmene vì ché la mamma ormai ir babbo la deve avé' marzagrata d'amore, e mi dovre' 'scrìve da voiàrtri? Ma piuttosto vo nell'Esercito della Sarvèzza (Sarvèscion Armi)! -

Del tutto indignato, un altro dei ragazzotti si rivolse ai camerati: - Oh, 'e ve l'avevo detto, io, che gli era un comunista! Sarà miha figliolo di quarcheduna di' Cippià? Ora ci si pensa noi, a te! - E, in men che non si dica, mentre il povero Gelsomino nemmeno aveva avuto il tempo di ripararsi sotto una Smart, su di lui si abbatté una gragnuola di pedate, stiacciòni, scaracchi burrini e altre simili vessazïoni e violente.

- Ohio! - gridava Gelsomino; - ma non potete! Io sono un feto, santa manifestazione della vita che sboccia, brutti sudiciumi! Ma che mi volete mandà subito a inaugurà ir cimitero de' feti di Renzi...?!? Mi dovete di-fèn-de, mìa spiacciàmmi co' piedi! Ahia! Uhi! Stiàcc' ! Aiuto! La scena der crìmi...."

Non poté finire la frase; giusto in quel momento, un calcione decisivo, quale nessun giocatore della Fiorentina 2011-2012 era mai stato capace di dare, sollevo da terra Gelsomino, facendolo innalzare per l'aria con un volteggio armonïoso e planare fino a quasi la sommità della torre di Maratona. Nel frattempo, fulmineamente, due dei ragazzotti s'erano già attaccati a i' compiùte' e stavano stylando una precisa denunzia della "vile aggressione dei centri sociali", alla quale sarebbe ovviamente seguita -il giorno dopo- un'interrogazione in Consiglio Comunale.

- Ma guarda te 'sti fasci, tutti fèti vì e fèti là, e poi un fèto vero 'un po' manco fassi una pisciatina in zanta pace che 'sti budiùli arrivano e ti fanno volà come ir Costa Concòrde...ma si pò'...?!? Ma quant'è veriddìo ne la fo pagà primoppòi! 'Ntanto 'omincio subito a raccontàllo a quello dell'Asocial Niuiòrche, poi si vedrà...brutti vigliacconi...pigliàssela 'co un quasi bimbo...! -

E Gelsomino, dotato fortunatamente -in quanto feto- di capacità autocuranti e rigenerative fuori dal comune, scese pian piano dalla torre dello stadio e s'incamminò nella notte oscura, deciso a vendicarsi.

Il picnic di Kanaguri


La Maratona, allora, era un po' più corta; durava poco più di quaranta chilometri (esattamente 40,2) al posto dei 42,195 attuali. Il giapponese Shizo Kanaguri, nei primi anni del secolo scorso, la correva in un tempo più che rispettabile: nel novembre del 1911 aveva stabilito il record del mondo con il tempo di 2 ore, 35 minuti e 45 secondi. Si trattava di una gara di qualificazione per le Olimpiadi dell'anno successivo, che si sarebbero svolte a Stoccolma; e qui nascevano non pochi problemi.

Nel 1912, andare dal Giappone a Stoccolma non era certo impresa da poco. Per permettere il lunghissimo viaggio a quell'atleta di valore, fu organizzata una raccolta di fondi dalla Scuola Normale Superiore di Tokyo, presso la quale il giovanotto (era nato il 20 agosto 1891 nella cittadina di Wasui) studiava. Praticamente tutti (studenti, laureati e professori) parteciparono alla colletta; diede il suo contributo anche lo stesso preside, Jigoro Kano, che era stato il fondatore della disciplina del judo. Furono raccolti 2000 yen di allora, corrispondenti a circa 150.000 euro attuali; del resto, con Shizo Kanaguri il Giappone aveva serissime probabilità di vincere la medaglia d'oro nella corsa-simbolo degli interi giochi Olimpici.

Shizo Kanaguri partì il 16 maggio 1912 in treno, dalla città di Shinbashi, recandosi al porto di Tsuruga. Da qui si imbarcò per Vladivostok, da cui prese la Transiberiana per Mosca. Dopo diciotto giorni di viaggio, finalmente, il 2 giugno arrivò a Stoccolma dove prese a allenarsi coscienziosamente; prima si era arrangiato facendosi di corsa decine di volte al giorno tutto il treno, per i corridoi. La Maratona olimpica era in programma per il 14 luglio.

Arrivata quella data, il tempo giocò uno scherzetto del tutto inatteso. I maratoneti si trovarono infatti ad affrontare una giornata impensabile per Stoccolma, sia pure nel mese di luglio: il sole batteva come in una città mediterranea, e la temperatura era di 33°. Il regolamento dell'epoca, rigidissimo, non prevedeva alcun punto di ristoro durante la corsa, e questo costò carissimo al campione del Portogallo, Francisco Lázaro, che in preda a una crisi di disidratazione stramazzò al suolo e perse la vita. Nel frattempo, del tutto ignaro del dramma che si stava svolgendo, Shizo Kanaguri continuava a macinare chilometri e lottava con il sudafricano McArthur alla testa della corsa. Questo fino a circa il 30° chilometro, quando i due vennero raggiunti da un altro sudafricano, tale Gitsham. Tra i due connazionali esisteva una specie di patto che misero in pratica facendosi reciprocamente da "lepri" e staccando il giapponese.

Arrivato al paese di Sollentuna, Shizo Kanaguri, fiaccato dal ritmo imposto dai due sudafricani e dal caldo soffocante, cominciò a perdere sempre più rapidamente terreno in preda anch'egli alla disidratazione. Accortosene dal giardino di casa nella frazione di Tureberg, dove con la sua famiglia stava godendosi un bel picnic sull'erba assieme alla sua famiglia in quella giornata irripetibile per quelle latitudini, uno spettatore (tale sig. Petre) chiamò il maratoneta giapponese in difficoltà, invitandolo a bere qualcosa di fresco. A Shizo Kanaguri non sembrò vero, e non se lo fece dire due volte: accettò di buon grado l'invito a gesti, e si bevve un bel bicchiere di succo di lampone freschissimo. Lo spettatore andò oltre: vedendolo stanchissimo e accaldato ai limiti del collasso, lo fece entrare in casa per riposarsi qualche minuto al fresco. Shizo Kanaguri si stese su una poltrona, e si addormentò.

Nel frattempo, il sudafricano McArthur vinceva la Maratona tra le accuse del suo connazionale Gitsham. Pare che fra i due ci fosse stato un gentlemen's agreement per il quale, se uno dei due si fosse fermato per bere qualcosa, l'altro avrebbe dovuto fermarsi e aspettarlo. Senonché Gitsham si fermò, e McArthur ne approfittò per tirare dritto in barba a ogni accordo. Vinse la Maratona, ma l'interesse generale era stato purtroppo catalizzato dalla tragedia del corridore portoghese che era stramazzato morto al suolo. Nessuno ebbe voglia di occuparsi della diatriba tra i sudafricani, e neppure di che fine avesse fatto il giapponese Kanaguri. Il quale se la dormiva beato, steso su una poltrona in una casa di Tureberg, mentre la famiglia Petre che lo aveva ospitato (salvandogli probabilmente la vita) continuava il déjeuner sur l'herbe.

Finalmente, qualcuno si accorse che dalla lista di coloro che erano arrivati al traguardo, mancava il giapponese Kanaguri. Letteralmente scomparso, volatilizzato nel nulla. Dopo molte ore dalla fine della gara, i giudici di gara decisero addirittura di rivolgersi alla polizia, che si mise a cercarlo lungo tutto il percorso. Niente da fare. Quando Kanaguri si svegliò, il giorno dopo, per le autorità svedesi era ufficialmente försvunnen, scomparso.

Non si ebbero più sue notizie nel paese scandinavo, e la qualifica di Scomparso fu ufficializzata e messa agli atti; in Svezia divenne una specie di favola mitologica e un modo di dire. La sua vicenda riuscì a eclissare i due vincitori litigiosi e anche la morte del povero maratoneta portoghese; l'espressione "picnic di Kanaguri" (Kanaguris picknick) divenne proverbiale per indicare una scomparsa improvvisa e inspiegabile. E' tuttora usata in Svezia, a un secolo intero di distanza.

Nel 1962 si festeggiava in Svezia il cinquantenario delle Olimpiadi, e a un famoso giornalista sportivo, Glokar Well (pseudonimo di Oskar Söderlund) venne in mente di riuscire a sapere che fine avesse fatto davvero Shizo Kanaguri, scomparso da mezzo secolo. Inviato in Giappone dal suo giornale, lo Stockholms-Tidningen, per reperire notizie sul maratoneta, riuscì dopo parecchie peripezie a trovarlo, oramai settantunenne, nella città di Tamana, nella prefettura di Kumamoto. Una volta scovato dal giornalista, l'anziano si stupì non poco di tutta la fama che si era guadagnato in Svezia in quel bizzarro modo; spiegò che, al suo risveglio, aveva preso un treno per Stoccolma e se n'era andato in un albergo. Il giorno dopo, utilizzando il resto della somma che era stata raccolta per lui, se n'era ripartito alla chetichella per il Giappone, rifacendosi oltre venti giorni di viaggio fra Transiberiana e nave; al giornalista disse che "si era vergognato troppo" e che non aveva avuto il coraggio di dire a nessuno che ripartiva. Disse ancora che non si spiegava come mai le autorità svedesi avessero continuato a considerarlo scomparso, dato che otto anni dopo, nel 1920, aveva corso ancora la Maratona alle Olimpiadi di Anversa (classificandosi al 16° posto) e che nel 1924, alle Olimpiadi di Parigi, l'aveva corsa per la terza volta (ritirandosi, ma senza addormentarsi). Per tutta la vita, poi, aveva insegnato geografia in un liceo locale, continuando a correre per diletto. Glokar Well gli disse che la sua vicenda era davvero rimasta un mistero per cinquant'anni in Svezia, e gli promise che gli avrebbe fatto togliere la qualifica di "scomparso" (forse anche per rimediare alla pessima figura fatta dalle autorità del suo paese).

Passarono cinque anni, e poiché in Svezia si è tenuta soltanto un'edizione delle Olimpiadi estive, essa dev'essere molto festeggiata. Nel 1967, infatti, si svolse a Stoccolma la commemorazione del 55° anniversario delle Olimpiadi del 1912. Alla TV svedese venne allora l'idea di far finalmente concludere a Shizo Kanaguri la Maratona che non aveva potuto completare. Kanaguri, oramai settantaseienne, fu invitato in Svezia a spese del Comitato Olimpico Svedese e della televisione di stato, e fu riportato esattamente alla casa della famiglia Petre, nella frazione di Tureberg del comune di Sollentuna, dove si era addormentato qualche anno prima; per essere sicuri, però, il "finale della corsa" fu organizzato nel mese di marzo (e in marzo, a Stoccolma, di caldo non ne deve fare sicuramente tanto). E Shizo Kanaguri ricominciò pian piano a correre, a correre, a correre. Fino allo stadio Olimpico di Stoccolma, dove tagliò il traguardo fermando i cronometri sul tempo di cinquantaquattro anni, otto mesi, sei giorni, cinque ore, trentadue minuti, venti secondi e tre decimi. Regolarmente registrato dalla Federazione Internazionale di Atletica come unico e irripetibile record del mondo all'incontrario. Shizo Kanaguri, fino ad allora inserito come "ritirato" nel tabellino della Maratona olimpica del 1912, fu ufficialmente riclassificato come ultimo. Ultimo sí, ma arrivato. Alla fine dichiarò in una conferenza stampa: "È stato un lungo viaggio...mi ci sono voluti sei figli e dieci nipoti per finire questa corsa!"


A sinistra: Shizo Kanaguri alla partenza della Maratona olimpica del 14 luglio 1912.
A destra: Mentre taglia il traguardo allo Stadio Olimpico di Stoccolma nel marzo 1967.

Dicono che Shizo Kanaguri sia morto il 13 novembre 1984 all'età di novantatré anni. Non tutti, però ne sono certi; e visto che, giusto quest'anno, cade il centenario delle Olimpiadi di Stoccolma, chissà che non ce lo vediamo ricapitare a Londra. Del resto, è stato dato per "scomparso" già una volta... Fatto sta che ogni anno, a Kumamoto, viene organizzata una strana Maratona a suo nome. Invece di andare avanti per 42 chilometri e rotti, si ferma al trentesimo chilometro. Poi, chissà, tutti si fanno una dormitina!

mercoledì 21 marzo 2012

Amari.

Germinale


Oggi è il primo Germinale.

E in Germinale si tagliava il cazzo ai padroni.

Non lo sapevate?

martedì 20 marzo 2012

Roma


Non è difficile imparare i quartieri di Roma; basta girarli per un paio d'ore, e ti ci sai già orientare in grandi linee. C'è la strada principale, che magari in qualche modo reca il nome del rione; ci sono due o tre strade dal nome antico e curioso (a San Basilio, via Scorticabove) e poi ci sono le strade tematiche (sempre a San Basilio, per esempio, tutti i paesi umbri e marchigiani). Il difficile è collegare i quartieri, sapere come andare da una zona all'altra. Sapere dove si diramano le strade consolari, dove mena la Salaria, dove s'incrocia la Cassia, come sfuggire alla Portuense o alla Prenestina. E quelle volte che mi capita d'andarci, a Roma, ricomincia il gioco; perché, prima di morire, io imparerò Roma. E' da quando ci misi piede per la prima volta, sarò stato un marmocchio, che a Roma non ci vo mica per il colonnato del Bernini, per il Colosseo (ché, tanto, in un modo o nell'altro ci si passa sempre davanti prima de pijà er viale Manzoni), per piazza di Spagna e né tantomeno per il papa: ci vo pe' stà dietro a le targhe stradali, ai vicoli, alle case, ai portoni, ai cortili. Assumo un'espressione un po' ebete e strana, quando giro per Roma; trascino lo zaino e dopo un po' mi spunta una borsa in mano, che ci siano dei libri o tre chili di caffè della Tazza d'Oro, come ieri. El mejor del mundo, c'è scritto sull'insegna di via degli Orfani, a mezzo metro dal Pantheon; e è probabilmente vero.

Quod mihi Roma abstulit, Roma mihi reddit. E' un messaggino SMS che, tanti anni fa, trovandomi vicino a Ostia, mandai al numero di una persona che abitava da anni in quella città. Mi sembrava così, in quel breve momento, e allora volli dirglielo; mi rispose qualcuno che si dichiarava contento, dandomi del "fratello". Forse, ora, so persino che faccia deve avere; ma tutto è su coordinate troppo distanti per avere oramai alcun valore. Il ricordo si fa Maelström; Roma compare e scompare, e alle volte mi fo scaricare da un treno alla stazione Termini per ricominciare a chiedermi che cosa ci abbiamo in sospeso, io e Roma, e perché. Ho addosso una vecchia giacca comprata a Porta Portese, ed è sempre così; se vengo a Roma, ci vengo con le inesistenze addosso. I messaggini in latino, le giacche, il caffè; tre rabbie, tre rifiuti, tre insulti e tre dolori. E me li porto aguzzando gli occhi, mentre monto sul 40 Express che mi deve portare al Largo di Torre Argentina; sto andando lì a misurare quanto mi ricordi quelle dieci strade, dall'insopportabile piazza Esedra giù per la tronfia via Nazionale. E piazza Venezia, certo. Ma ho in mente un'altra cosa. Sono partito con dentro allo zaino un po' di roba da mangiare per gatti.

I gatti di Largo Argentina sono altri ricordi, e altre microfiamme che bruciano fredde e scostanti. Mi dicono a volte che non c'è mai stato nulla, e che la vita è fatta di conoscenze casuali che altrettanto casualmente se ne vanno lasciando poco o nulla. Ma quali amicizie, ma quale affetto; parole, vuote buriane, sentenze, vite altrui che si mantengono incomunicabili anche e soprattutto quando viene pronunciata qualche parola magica che magica non è affatto, tipo "condivisione". Baggianate. Si fa fatica a condividere qualcosa con noi stessi, figuriamoci con qualche altro che passa e va. Ma i gatti sono là, a crogiolarsi ad un sole che sembra non esserci, ma che loro magari vedono e sentono. Tiro fuori i pacchetti dallo zaino, ed eccoli là a mangiare con calma, ordinatamente, senza azzuffarsi. Qualcuno di loro addirittura sdegna il cibo, mostrandosi sazio, e si lecca ostentatamente come fosse lì da duemila anni. Roma e i passi. A testa all'insù. Roma e i muretti.

Devo andare a San Basilio. A San Basilio non ci sono mai stato. Dovrei tornare alla stazione Termini e prendere il metro B fino a Rebibbia, con sette "b" naturalmente; ma non ho la minima voglia di scendere sotto terra. Un taxi, che so che mi costerà uno sproposito; ma chissenefrega. A Roma io esercito ogni sorta di pretesto; c'è anche quello delle macchine vecchie, una vecchia passione che da qualche tempo ho ritirato fuori. Pronto anche a far fermare il taxi per fotografarne una, facendo così aumentare il prezzo della corsa. "Mi porti davanti alla Metro di Rebibbia", dico ar tassinaro; solo che er tassinaro è di Kosovska Mitrovica, ex Titova, e me lo dice pure. Ci sono passato una volta, per Mitrovica, proprio quando ancora era Titova; mi si aggrapparono cinque o sei bimbetti fangosi alla Fiat Ritmo che poi prese fuoco un 11 di settembre. Andavo nell'Ellade. Fa sempre una certa impressione dire "Ellade", specialmente rammentandomi di come cominciava dopo Gevgelija, con una specie di spettrale casinò al termine dell'Universo. Insomma, er tassinaro sa che se deve pijà 'a Tibburtina, con cinque "b", e la pija proprio dall'inizio, in San Lorenzo, dopo la brevissima via di Santa Bibiana. Un delirio di "b"; e un delirio personale.

Io vengo da una città dove una strada, e solo dal lato nei numeri pari, fa fatica a superare il numero 1000. Via Pisana si ferma al 1076, ma i numeri dispari si son fermati all'841 non so quanto prima, perché da quel lato poi è già Scandicci. Farsi 'a Tibburtina dall'inizio è come ritrovarsi all'improvviso nell'Oceano Pacifico per uno che non s'è mai mosso dal lago di Massaciuccoli. Due, quattro, centoventisei, e l'automezzo avanza; ar Cimitero der Verano se fa autostrada co' li viadotti, poi si restringe e entra nelle progressive dilatazioni e periferiche mentre il cielo s'impiomba e mi passa davanti una 500 decrepita; ma sarebbe inutile chiedere ar tassinaro cossovaro de fermasse in mezzo a un gorgo di traffici, circolazioni e melme gassose. E i numeri aumentano; 564 c'è un dentista al quinto piano, 622 c'è che da qualche parte ce stanno li fantasmi e me stanno a tirà mazzate, 828 una pizzeria che secondo me fanno la pizza al tungsteno, 994 un'opera pia. Il Mille non mi riesce, però, di vederlo. Mille e non più Mille. Roma.

La imparerò così fintantoché quella maiala della Morte non mi colga; abitando dentro a un ballo di povere fissazioni che mi porto dietro fin da bambino. Viaggiando come un cretino a bordo di un taxi sgangherato, con un guidatore che palesemente non sa manco pe' niente dove sta er metrò de Rebbibbia (e, infatti, lo toppa senza sapere più dove andare, mentre i numeri stanno ormai al 1280 e non si vede davanti che un'infinitezza). Mi soccorre il gatto che, con Roma accanto, si lecca e sbadiglia ancora nell'immagine, mentre i miei pacchettini di prelibatezze stanno già trasformandosi in merda nelle pance dei suoi compagni eterni com'eterni sanno essere soltanto i gatti. Telefono alla persona dalla quale devo andare, e mi fo dare il suo indirizzo preciso; tanto che ci siamo, che venga portato direttamente a domicilio. Domicilio San Basilio; fa pure la rima.

Un'inversione a U da far paura, e i numeri all'improvviso mi decrescono davanti. Chissà dove arriva, 'a Tibburtina; però mi trovo davanti, all'improvviso, via Montecarotto. E mi ritrovo davanti un ragazzo mai conosciuto. Si chiamava Fabrizio Ceruso; e lo sapevo che, da qualche parte, mi sarebbe passato davanti. Roma, e chissà dove sei e che cosa fai. Roma, e i numeri delle case si fanno mantice. Trenta euro di taxi per essere portato davanti a dei lavori in corso, assi di legno, un prato, un culo appoggiato sul muricciolo di un giardino. Una molecola di Roma davanti agli occhi; e ancora, questi, sono in su. Guardano verso qualche punto, tra gatti millenari e presenze che, in quello stesso momento, usano dell'unica forma di condivisione possibile: esserci ed esserci state. S'aggrovigliano e formano quelle quattro lettere dai cento anagrammi, Roma Amor Mora Maro Armo Omar Ramo. E mentre il sarto Arepo tiene all'opera le ruote, penso alla prossima volta. Sarà fra un mese o fra un anno; non ci sarà, forse mai. La imparerò, Roma, tutta quanta. Io, piccolo provinciale meravigliato, alla ricerca di Cinquecento e numeri civici altissimi, libero, dovizioso di stanchezze, impercettibile, luce.

sabato 17 marzo 2012

Italia e Grecia. Differenza tra idea e azione.


Mentre in Italia, tra un Chiudere Casapound! e una manifestazione-passeggiata qua e là, Casapound e compagnia brutta aprono, prosperano, imbrattano, pestano e, in definitiva, continuano a fare ciò che vogliono quanto e più di prima (compresi i loro rappresentanti nel corpo diplomatico), in Grecia mostrano perfettamente quale sia la differenza tra idea e azione.

Nell'immagine sopra, ripresa come tutta la notizia da Liberi Eretici Maledetti, si nota l'esterno del nuovo ufficio di Patrasso dell'organizzazione neonazista Χρυσή Αυγή, che si legge Hrissì Avyí e che significa "Alba Dorata". Dico "nuovo ufficio", perché sembra che sia stato inaugurato in pompa magna lo scorso lunedì 12 marzo. Non è durato molto. Il 15 marzo -come si legge su Liberi Eretici Maledetti-, poco dopo le 13.00, un folto gruppo di anarchici ed antifascisti hanno preso d’assalto gli uffici locali del partito neonazista Chrissi Avgi/Alba d’Orata, situato in via Germanou, nel centro di Patrasso. Il covo fascista, che era appena stato inaugurato Lunedi 12 Marzo, è stato completamente distrutto. Inoltre, slogan antifascisti sono stati scritti sulla maggior parte delle pareti dell’edificio che era stato lasciato ai teppisti neo-nazisti, mentre il loro odioso materiale è stato dato alle fiamme e gettato per strada. I compagni hanno lasciato il luogo in corteo.

"Odio e collera per ogni razzista"

Il movimento Χρυσή Αυγή, che ha ottenuto il 5,3% dei voti alle elezioni municipali ateniesi del 2010 ottenendo un seggio in consiglio comunale, accetta statutariamente tra le sue file soltanto "Ariani di sangue" e "greci di discendenza accertata". I membri si salutano con lo Hitlergruss e si caratterizzano per il loro assoluto razzismo e nazionalismo violento. Fatto non secondario, nonostante la consistenza numerica non eccelsa degli iscritti, il movimento riscuote parecchio successo nella Polizia greca, che è stata fatta oggetto di indagini parlamentari per le infiltrazioni del movimento neonazista tra i suoi membri. Niente di cui stupirsi, chiaramente.


Materiale del movimento neonazista gettato dalla finestra e dato alle fiamme.

Tre giorni. La presenza degli "Albadoriani" a Patrasso è stata tollerata per questo periodo prima di passare all'azione diretta, nonostante lo spiegamento in forze degli amichetti motorizzati dell'Ελληνική Αστυνομία. Dopo che nei tre giorni in questione gli Albadoriani di Patrasso avevano già cominciato la consueta solfa consistente nel riversare le colpe della crisi sugli "immigrati" (vi ricorda qualcuno, magari vestito di verde...?), il 15 marzo è stata posta fine alla cosa nel modo più opportuno e radicale. E per non credere che si sia trattato soltanto di qualche slogan, e due o tre scritte sui muri, sarà bene guardare con attenzione questo filmato per apprezzare meglio l'opera di meravigliosa distruzione che è stata effettuata nel "nuovo ufficio" di quei pezzi di merda:



E' stato proceduto con estremo ordine, non limitandosi alle suppellettili e al materiale, ma concentrandosi sui sanitari e sui rubinetti che, mazzolati ammodino, hanno completamente allagato il locale. Neppure le opere murarie sono state risparmiate, come si può agevolmente vedere. Naturalmente questo video è dedicato con sincera partecipazione ai nostri cari legalitari, ai fautori del diàlogo e quant'altri. A coloro che, in definitiva, permettono a Casapound e cameratucci vari di scorrazzare liberamente, di essere blanditi e foraggiati, di organizzare concerti con consoli a Osaka al seguito, eccetera, eccetera, eccetera.

A Patrasso, i loro omologhi greci se ne staranno un po' più fermini. Senza tanti "chiudere, chiudere" berciati da tutte le parti, la chiusura è stata effettuata rapidamente, ordinatamente e senza lasciare alcunché di sano. Per riaprire, ci penseranno un attimino, gli eroici Χρυσαυγίτες.

mercoledì 14 marzo 2012

Morire dal ridere


"Come augure, Calcante non teme alcun rivale", dice l'Iliade. C'è da crederle; Calcante Testoride aveva ricevuto il dono della profezia direttamente da Apollo, e si era dato da fare sul serio per mettere a frutto quel suo dono. Fu lui a far sacrificare Ifigenia dal padre Agamennone, dato che quest'ultimo aveva offeso Artemide e doveva placarne l'ira (a quel tempo, come si sa, gli dèi erano particolarmente suscettibili). La flotta greca si era radunata in Aulide e, per avere venti propizi nella navigazione verso Troia, Artemide aveva senz'altro voce in capitolo. Calcante annunciò poi agli Achei che Criseide, schiava e concubina dello stesso Agamennone, doveva essere restituita al padre per far sí che Apollo fermasse la pestilenza che aveva mandato loro come punizione; ne nacque la lite furibonda tra Achille e Agamennone, che peraltro è il principale argomento dell'Iliade.

Secondo alcuni, Calcante Testoride morì di vergogna per essere stato sconfitto da un altro indovino, Mopso, in una gara di divinazione. Ma un'altra versione narra che l'indovino si ammazzò letteralmente di risate. Si era infatti spinto a predire il giorno esatto della propria morte; una volta arrivato tale giorno, però, nada de nada. Proprio nessuna avvisaglia della presunta morte imminente. Gli venne però una specie di crisi isterica, dovuta alla fallita profezia; crisi che si manifestò con risate convulse che lo uccisero. Insomma, ci aveva visto giusto anche quella volta!

Se Calcante è una figura mitologica, il filosofo e matematico Crisippo di Soli è invece un personaggio pienamente storico. Era nato a Soli, in Cilicia, tra il 277 e il 281 prima di Cristo; morì a Atene nel 208 o 204. E' considerato il sistematizzatore delle dottrine stoiche (in ben 700 opere!) e un contributore importantissimo nel campo della logica delle proposizioni. Passò la vita a scrivere come un forsennato: si disse che non avesse trascorso un giorno della sua vita senza aver scritto almeno 500 righe. Aveva un'altra curiosa "specialità": quando si ritrovava impegnato in una disputa, si divertiva a sostenere entrambe le posizioni facendo ammattire tutti quanti. Gli fu fatale il proprio asino. Gli aveva dato da bere del vino, e l'asino ubriaco si era messo a ingozzarsi di fichi. Crisippo non resse alla scena comica: schiantò dal ridere.

E di morti dalle risate, veri, ce ne sono stati sembra diversi. Il 31 maggio 1410, il re di Aragona Martino I, che era detto L'Humà (L'Umano) o L'Ecclesiastico, si fece delle belle risate a crepapelle dopo un lauto pranzo. A crepapelle sul serio, dato che la sua pelle e tutto il resto creparono assieme a lui, sebbene con il gentile aiuto di un'indigestione. Nel 1599 un mercante italiano che si trovava nel regno di Birmania raccontò al re, Nandabayin, che Venezia era "uno stato libero senza un re". Il sovrano, sentendo tale racconto, fu colto da una crisi irrefrenabile di riso che lo uccise in pochi minuti. Stessa sorte toccata nel 1660 al primo traduttore in lingua inglese di Rabelais, l'aristocratico Sir Thomas Urquhart of Cromarty: alla notizia che Carlo II era stato restaurato nel trono dopo tutti gli sconquassi cromwelliani, si sbellicò dal ridere fino a morirne.

L'Inghilterra è considerata patria del sottile umorismo (quello "britannico", ovviamente...), ma le crisi di risatone sguaiate sembrano mietervi parecchie vittime. Nel 1782, infatti, una tale signora Fitzherbert stava assistendo, in un teatro londinese, alla rappresentazione della famosa Opera del Mendicante, la commedia satirica di John Gay che un paio di secoli dopo avrebbe fornito a Bertolt Brecht il materiale per l'Opera da Tre Soldi. Quando l'attore Charles Bannister fece il suo ingresso in scena nel ruolo di Peachum, la signora Fitzherbert fu scossa da una risata talmente prolungata e inarrestabile da scatenare la riprovazione del pubblico, e fu buttata fuori dal teatro. Tornata a casa, la signora continuò a ridere per tutta la notte e per tutto il giorno successivo, morendo la mattina dopo mentre ancora rideva.

Roba di secoli fa? Forse qualcuno si metterà a ridere, ma non è proprio così. Ancora in Inghilterra, e più precisamente il 24 marzo 1975, Alex Mitchell, un muratore di una cinquantina d'anni di King's Lynn, nel Norfolk, stava guardando in televisione uno sketch dei "Goodies". I Goodies era un trio di comici, Tim Brooke-Taylor, Graeme Garden e Bill Oddie, che negli anni '70 e '80 proponeva commedie e scenette assolutamente surreali. La sera del 24 marzo 1975 la BBC stava trasmettendo un episodio intitolato Kung Fu Papers, nel quale Tim Brooke-Taylor, vestito da scozzese con tanto di gonnellino, si difendeva a colpi di cornamusa da Bill Oddie vestito da sanguinaccio in quanto maestro dell'antica arte marziale lancastriana dell'Ecky Thump (che si può tradurre come "botte-da-orbi").


La moglie di Alex Mitchell, che guardava la tv assieme al marito, raccontò che il pover'uomo si mise a ridere come un ossesso andando avanti per venticinque minuti, finché non si accasciò morto sul divano per un infarto secco. La signora scrisse poi ai Goodies, ringraziandoli per aver reso così divertenti gli ultimi momenti di vita del consorte; la quale, mi sia permesso di aggiungere, è una dimostrazione inarrivabile di humour britannico!

Tra parentesi, i Goodies si "rifecero" un paio d'anni dopo: dopo una morte, una nascita. Il 1° novembre 1977 una signora 32enne di Leicester, incinta di nove mesi, stava guardando l'episodio Alternative Roots. Anche lei si mise a ridere come una matta, e fu colta dalle doglie esattamente in quel momento. Si rifiutò però di essere portata all'ospedale finché non fosse terminato lo sketch, con una bambina (chiamata Ayesha) che stava già uscendo. Tutto andò benissimo, e Ayesha nacque con la mamma che rideva ancora. Il parto più allegro del mondo!

Il 26 luglio 1989 un audiometrista danese, Ole Bentzen, morì sempre alla tv mentre guardava Un pesce di nome Wanda. Sembra che le sue risate fatali siano durate per tutto il film, facendogli balzare il battito cardiaco prima a 250 e poi addirittura a 500 (in un altro film da scompisciarsi, Balle spaziali di Mel Brooks, questa sarebbe stata chiamata ludicrous speed, "velocità smodata", nella famosa scena in cui Rick Moranis si stiànta alla frenata dell'astronave, con in testa un elmetto che fa già pisciare addosso di per sé a vederlo). Ole Bentzen non resse: arresto cardiaco, e via a misurare l'udito nell'aldilà.

Ancora nulla rispetto a quanto capitato nel 2003 a un gelataio thailandese di 52 anni, Damnoen Saen-um. Si mise a ridere nel sonno, con sua moglie che tentava inutilmente di svegliarlo. Dopo due minuti di risate incessanti, il poveraccio smise di respirare: una combinazione letale di infarto e asfissia. Nessuno potrà mai sapere che cosa stesse sognando, ma è una cosa cui stare estremamente attenti. Capitasse, che so io, di sognare Mario Monti che fa piedin piedino alla Camusso, o il procuratore Caselli che parla di arresti per fatti specifici, o Ignazio La Russa che si immola eroicamente a Kandahar, o due imbecilli che sparano a dei pescatori scambiandoli per pirati.

sabato 10 marzo 2012

Priscilla, gattina volante


La gattina persiana di mesi sei che vedete nella foto si chiama Priscilla e iersera se l'è vista parecchio, ma parecchio brutta. In questo vedersela brutta, però, sembra che sia atterrata nel posto giusto, vale a dire in quella specie di Libera repubblica de' Gatti che è il cortile di Via dell'Argingrosso sessantatré e sessantacinque C.

Dico "atterrata", perché la signorina ha pensato bene, mentre i suoi umani di adozione se n'erano ìti a letto, di allargare un buchetto nella zanzariera della porta di cucina che dà sulla terrazza, e di esplorare il vasto mondo al di là dell'appartamento prendendo una scorciatoia un po' problematica. E' infatti volata dal quarto piano, e vi garantisco che è un quarto piano di quelli seri. E se c'è qualcuno che ancora crede che i gatti non sono esseri superiori, provi un po' a buttarcisi lui, dal quarto piano, e a vedere se la racconta. Oppure a venirci buttato in preda a un malore attivo.

L'hanno trovata i liberi gatti della Repubblica: Redelnoir e Niccolò Machiavelli.


Redelnoir e Niccolò Machiavelli impegnati in una lettata collettiva a casa mia

Lì per lì, nel chiarore della nottata marzolina con la luna piena, sembrava che stessero contendendosi un topone o un piccione (specialmente questi ultimi se la stanno passando grama ultimamente, con quei due). Invece no. Priscilla, la cui caduta deve essere stata deflessa da una tenda al primo piano, era planata nel cortile e si era trascinata, ferita, vicino a delle piante davanti a una porta. E quei due se la stavano leccando gentilmente, mentre lei tremava impaurita e perdendo sangue dalla bocca per un dentino rotto.

Non c'è stata questione: trasportino, macchina e via alla clinica veterinaria aperta 24 ore. Dentino rotto, una zampa rotta, ferite varie e il dubbio atroce che potesse avere un'emorragia interna, cosa di cui purtroppo so qualcosa. Sembra invece di no, almeno dai primi esami; alla clinica è stata messa accanto a un povero gattone anemico sottoposto a una trasfusione. Insomma, potrebbe esserla sfangata; cosa per la quale invito tutti a pregare San Silvestro (quello del canarino Titti, ovviamente).

Tornati a casa (io, la Daniela e la vicina di casa, umana di riferimento di Niccolò), abbiamo tappezzato via dell'Argingrosso di manifestini, e il risultato non si è fatto aspettare. Stamani alle sette meno un quarto gli umani della Priscilla, tra i quali un disperatissimo bambino di sei anni che non trovava più la sua micia, hanno telefonato. Priscilla in questo momento è dal veterinario di fiducia, non sta benissimo e dovrà essere operata; però, cavolo, ce la deve fare. Ce la deve. Mi ricorda qualcuno che è caduto da un traliccio nei giorni scorsi, e che ce la ha fatta. Come fosse un gatto!

Sacre scritture


(che mondo sarebbe senza i refusi di Repubblica?)

giovedì 8 marzo 2012

Mafalda e i fiammiferi


Dico sempre che se il genio della lampada mi concedesse di saper scrivere tre canzoni, la prima sarebbe per la Mafalda; e alla Mafalda non bisognava darglieli, i fiammiferi.

Le piacevano gli svedesi o i “familiari”, quelli con la carta sabbiata sul pacchetto. Se ne trovava una scatola, non aveva pace finché non li aveva bruciati tutti; e c'era il rischio che desse fuoco alla vecchia casa con la torre, specialmente quando cascava giù il vento dalle colline e sembrava dovesse svellere ogni cosa dalle fondamenta. Bisognava nasconderglieli, i fiammiferi. Ma, a volte, non serviva.

Coi fiammiferi ci si campava in quella casa, perché di riscaldamento a gas non ce n'era. C'erano i caminetti e la stufa a legna. Bisognava dare fuoco alle fascine e alla “diavolina” che mandava un puzzo micidiale; alla carta di giornale. Poi i rami più grossi, tondi, e infine i ceppi quando tutto aveva ben preso. E occorreva anche tenere lontana la Mafalda, perché sennò i fiammiferi finivano in un amen.

I fiammiferi? Ce ne sono di fiammiferi? Quello lo chiedeva sempre. I fiammiferi e qualsiasi cosa d'alcolico, vino, grappa fatta in casa. Capace di seccarsene da sola una bottiglia. Non l'avevo mai vista, e non la vedrò mai più, una faccia come quella. Era vecchia, sí, la Mafalda, ma sembrava venire diritta da ancora prima, da qualche secolo buio. Occhi chiarissimi, verdi, meravigliosi e spaventosi al tempo stesso; messi dentro una faccia dura, tremenda, cattiva che rare volte si apriva ma mai a qualcosa che rassomigliasse alla gioia. Si diceva che non c'era con la testa, e forse era anche vero; ma in quella testa s'agitavano fantasmi che nessuno avrebbe saputo mai immaginare. S'agitavano fantasmi e bruciavano fiammiferi.

Si nascondevano, sí. Ma se non li trovava, e magari noi s'era fuori di casa o in qualche altra stanza, andava nella sua camera piena di bambole gnude, di cianfrusaglie d'ogni sorta, di sporcizia e d'odore greve di vecchia e di piscio. Cavava fuori un portamonete che nessuno sapeva dove lo tenesse; e nel portamonete c'erano fior di quattrini. Non gli spiccioli: fogli da cinquanta e centomila lire. Il marito gliene aveva lasciati di soldi, risparmiati giorno dopo giorno; e poi anche lei lavorava come una negra. Lavorava in una fabbrica di fiammiferi. Operaia per trent'anni e rotti. Gli stessi trent'anni che aveva sua figlia quando una leucemia fulminante se l'era portata via in pochi mesi, lasciandola a badare a una bambina di quattro anni.

La bambina sta ancora in una fotografia, che ho tenuto a dispetto di tutto.

Quando i fiammiferi non c'erano, e nessuno la vedeva, pigliava il suo portamonete e, alla zitta, inforcava le scale. La fermata della corriera era sulla strada provinciale, là davanti; la aspettava e se ne andava in paese. La conoscevano tutti e le chiedevano, sembra, dove andasse; rispondeva che erano finiti i fiammiferi.

Ora che ci ripenso, sí, la sua storia la devo avere già raccontata; pazienza. La racconto di nuovo. Non ho di certo firmato contratti. E, poi, ogni volta una storia è diversa; vengono a mente cose differenti, arrivano alla memoria sguardi ignoti.

Erano finiti i fiammiferi, e andava in paese a comprarli. E, allora, certi bottegai maiali se ne approfittavano. Una volta tornò con una sacchettata di fiammiferi familiari, ne doveva aver comprati per una cinquantina di scatole; e aveva speso seicentomila lire. Metà di quello che le era stato preso in banca l'ultima volta, perché i soldi erano suoi. Urla, allora; ma c'era poco da urlare. Se si tornava al negozio per reclamarli, il bottegaio diceva che non era vero, diceva che di sicuro i soldi li aveva persi. Io spero, non di rado, che ci sia un inferno, e che quello lì ci bruci dentro. Ce li metterò io i fiammiferi per dargli fuoco, se passerò da quelle parti. E' abbastanza probabile.

Tanto non si ricordava nemmeno di quel che aveva detto un minuto prima. Ogni tanto si trovavano i cadaveri di decine di fiammiferi sul piano della stufa, o per terra. Chissà com'era stata da ragazza in quelle lande che ora piaccion tanto ai turisti, e che usano per le pubblicità giapponesi e per i film inglesi. Da quelle parti ho imparato una caterva di cose, tipo a non fare tanti idilli per la civiltà contadina; erano violenze e durezze quotidiane. Perché la Mafalda pagava seicentomila lire per qualche scatola di fiammiferi, ma di quand'era ragazzina se ne ricordava bene. Capace d'ingurgitare mezzo fiasco di vino, senza imbriacarsi nemmeno di striscio. Anzi, diventava lucida. Alle volte si diceva che, prima d'andare a comprare i fiammiferi, sarebbe stato meglio darle parecchio da bere.

E da quella bocca sotto gli occhi verdi chiarissimi, da quel viso su cui erano stampate intemperie non dicibili, uscivano maledizioni in una lingua che non esisteva più, ché diceva ancora “unguanno” per “l'anno scorso”, latino hunc annum, e “stólto”, con la “o” bella chiusa, a mo' d'insulto buono per ogni occasione; mi guardava e mi diceva “per me tu' se' proprio stólto” e c'era da aver paura, e c'erano brividi freddi che rantolavano per la schiena. E c'ero, io, capitato per chissà quali capricci del destino da quelle parti, all'indietro nel tempo, per scomparire; per la voglia d'essere dimenticato per un po'.

Se ne ricordava bene di quand'era piccola. Aveva saputo che ero mezzo elbano, e l'Elba sapeva cos'era perché per andare all'Elba bisogna per forza andare a Piombino. Che l'ha mai visto il mare, Mafalda?, le chiedevo; e lei: Non me ne ricordo. Abbaiava un cane lupo enorme, una femmina che era lasciata cacare nel giardino sotto, riempiendolo di merde fresche e secche. A Piombino ci andava suo nonno, a fare non si sa cosa dopo aver tagliato il bosco in Maremma; forse a venderlo coi suoi sodali. Suo padre pestava. Lei e i fratelli. Lei e la madre. A sangue, briaco fradicio; poi, a quindici anni, in fabbrica. Sapeva ancora spiegare come si fanno i fiammiferi, a partire dai tronchi d'albero che arrivavano coi “cami” grossi. Cami, plurale di càmio. La prima figlia l'aveva avuta prima della guerra; un giorno, là dove si puote decisero che il paese andava bombardato perché c'erano delle fabbriche. Anche quella di fiammiferi dove lavorava. La bambina, che aveva nove anni, era morta nel bombardamento. E allora gridava, la Mafalda: Accidenti a quello stólto di Mussolini. A votare non so nemmeno se c'era mai andata, ma a nominarle Mussolini s'incazzava, e quella faccia incazzata sarebbe bisognato a suo tempo metterla davanti a Mussolini. Sono sicuro che sarebbe stato più fermo.

Poi la rifecero la fabbrica, nel dopoguerra, diceva. Non c'era un cazzo, dentro. Non un estintore. Non una canna dell'acqua. Zolfo e legno, legno e zolfo; bastava una scintilla. Otto, dieci ore al giorno, seghe d'ogni tipo, dita che saltavano, a volte braccia intere, a volte vite intere. Si ricordava di tre operai morti, coi nomi; e se le chiedevi cosa s'era mangiato dieci minuti prima, non se ne rammentava già più. Del capoccia che sorvegliava le operaie se ne ricordava perbene, però, e del suo sigaro. Girava in fabbrica col sigaro acceso, apposta.

Lo so perché la sto raccontando ancora, la storia della Mafalda. E perché, chissà quando ma di certo, la racconterò ancora, e ancora, e ancora. Siccome ho rischiato di morire, mi son detto che certe cose è meglio ridirle finché si è in tempo. In pochi anni, quella zona là s'è di nuovo riempita di fabbriche e magazzini; ogni tanto, cosí per dirmi che non mi sono sognato tutto quanto e che ci sono campato per più di due anni, ci ripasso con qualche scusa pietosa. Passo davanti anche al cimitero del paese, dove la Mafalda è diventata ossa. E' morta in un giorno soffocante d'estate, quasi vent'anni fa. In chiesa ci dovetti andare, perché la sua morte valeva solo un pugno di persone. Sua nipote, suo genero, la compagna di lui, e il sottoscritto. A un certo punto mi toccò scappare dalla chiesa, durante il funerale, perché l'incenso da messa mi fa venire la tosse convulsa, da strabuzzare gli occhi. Il bottegaio smise di far soldi fregando una vecchia che andava a comprare i fiammiferi; lo zolfo, S, sulfur, il legno, le capocchie, il fuoco. La fiamma.

E mi sono accorto che sarebbe l'otto marzo, ma la mimosa non piglia fuoco.

In quest'otto marzo regalo fiammiferi, ché di fuoco da dare ce ne sarebbe parecchio.


mercoledì 7 marzo 2012

Il fascista e la sua strage: il dossier degli Anarchici Pistoiesi / Le fasciste et son massacre: le dossier des Anarchistes de Pistoia


Gli Antifascisti e Antirazzisti pistoiesi hanno realizzato un dossier completo sul fascista Gianluca Casseri, l'autore della strage razzista del 13 dicembre in piazza Dalmazia a Firenze, durante la quale sono rimasti uccisi Samb Modou e Mor Diop. Tale dossier è già stato distribuito in iniziative e manifestazioni, ma da oggi, grazie agli Anarchici Pistoiesi, è scaricabile liberamente in rete:

Clicca qui per scaricare il dossier in formato .pdf

Un dossier completo, dal quale emergono tutti i legami tra il fascista, Casapound e tutto il neofascismo italiano del "terzo millennio" (un millennio che speriamo si interrompa molto presto, per questi stronzi). Da scaricare e leggere. La memoria del 13 dicembre non si deve fermare alle lapidi, deve essere militanza e vigilanza antifascista continua.

Les Antifascistes et Antiracistes de Pistoia ont réalisé un dossier complet sur le fasciste Gianluca Casseri, l'auteur du massacre raciste du 13 décembre à Florence, dans la place Dalmazia, qui a causé la mort de Samb Modou et Mor Diop. Ce dossier a été déjà distribué à l'occasion d'initiatives et manifestations, mais à partir d'aujourd'hui on peut le télécharger librement du site des Anarchistes de Pistoia (naturellement, le dossier est en langue italienne):


Un dossier complet mettant en pleine lumière les liaisons entre le fasciste, Casapound et l'entier néofascisme italien du "troisième millénaire" (un millénaire, du moins on l'espère, qui va terminer bientôt pour ces salopards). Il faudra bien le télécharger et le lire. La mémoire du 13 décembre n'est pas faite de plaques, mais de militantisme et vigilance antifasciste sans cesse.

martedì 6 marzo 2012

Perché non ce la faranno


Stavo giusto pensando a una cosa.

Poniamo che il sottoscritto si fosse trovato a scappare con la polizia alle calcagna. Mi è capitato, a dire il vero; l'ultima volta a Bologna, qualche tempo fa, durante una manifestazione contro un CPT. Curiosamente, se mi ricordo bene, credo fosse proprio un 6 di marzo, del 2006 o 2007. L'ultima volta che ho preso una bella fratta di manganellate, perché scappa scappa mi hanno beccato. Dev'essere stato il mio "canto del cigno", perché mi ricordo che quella sera avevo proprio preso una bella corsa, veloce il giusto; nulla da fare. Loro erano comunque più veloci. Li avete mai assaggiati i manganelli? Fanno male. Ma parecchio. Mi presero alle gambe, e me le ridussero a un concio da portarmi a braccia, poi; per fortuna non mi fermarono. Una volta su un autobus, dove salii retto da tre persone tirando dei moccoli che sembrava i' giorno di' gastigo, un amorevole Oreste Scalzone, che era casualmente sullo stesso autobus perché partecipava alla manifestazione poco dopo che era potuto rientrare in Italia, mi consigliò con gentilezza davvero paterna (e, purtroppo, con molta esperienza) di utilizzare il manganese per le botte. Dal manganello al manganese, risposi piegato in due, suscitando non poche risate.

Poniamola questa cosa, perché mi sono immaginato il 27 febbraio scorso, così per traslato onirico, a dover scappare io lassù in Valsusa alla baita Clarea. Ora come ora, alla baita Clarea non sarei capace nemmeno di metterci piede; vabbè che ho fatto la riabilitazione cardiaca, però la funzionalità intera sarà ben difficile che la recuperi. E, comunque, penso che a scorrazzare su e giù per quei posti avrebbero difficoltà parecchi. 'A sarà düra sí, ma non solo düra. 'A sarà parecchio in salita, anche. Insomma, per farla breve: non soltanto un mezzo catorcio come sono attualmente, ma anche molti che catorci non sono su quel traliccio, lassù, non ci avrebbero manco messo piede. Non lo avrebbero raggiunto, oppure si sarebbero fermati al primo passo. Luca Abbà, invece, è andato su come un acrobata; e non è soltanto questione di agilità, ma anche di muscoli. Porca puttana, quanti. Non so se vi rendete bene conto. Luca è andato su come fosse uno scherzetto, e dietro non ci aveva mica uno qualsiasi: ci aveva uno del Nucleo Rocciatori della polizia.

Ora immaginatevi voi tutti, anche quelli che magari sarebbero capaci di scalare un traliccio, di pigliare sul groppone una scoppola da scaraventomila volt da un cavo dall'alta tensione. Da rimanere inceneriti all'istante. Luca Abbà, salito sul traliccio col rocciatore a mordergli il culo, l'ha presa. Non è rimasto incenerito. E' soltanto, ma che sarà mai, cascato giù da una quindicina di metri. Persone mediamente normali sarebbero prima morte per la scossa, e sarebbe caduto giù un cadavere abbrustolito; Luca Abbà è caduto giù, invece, da Luca Abbà. E' caduto giù vivo, carne viva che lo rimane a dispetto di tutto, carne forte abituata a non cedere. Lo aveva del resto già detto all'esangue piddino Esposito, in risposta a un consueto blaterare di quest'ultimo; lo aveva invitato a arrivare in fondo vivo a una sua qualsiasi giornata di lavoro. Perché Luca Abbà vive del suo durissimo lavoro di contadino. Di coltivatore della montagna. Effettivamente, mi divertirei parecchio nel vedere un Esposito alle prese davvero con la Valsusa; ma uno del genere non sarebbe buono nemmeno come mangime per i maiali.

E' caduto giù vivo, Luca Abbà, e vivo è rimasto. Sopravvivendo a delle cose che avrebbero ammazzato tranquillamente chiunque. Fuori pericolo dopo dieci giorni, e saperlo fuori pericolo non deve soltanto riempire di gioia: deve far pensare molto. E deve infondere coraggio e forza anche in chi non potrà mai salire su nessun traliccio, anche in chi lotta coi mezzi che gli sono permessi dalle proprie condizioni; lo stesso coraggio infuso dalle incredibili "nonne" valsusine, che non a caso incorrono nelle stesse manganellate e nella stessa repressione nonostante le letterine commoventi di Repubblica.

Provate, proviamo a immaginarci Belpietro o Sallusti che salgono sul traliccio quando, un giorno, saranno inseguiti da un bel po' di gente desiderosa di fargliela pagare ammodino; proviamo a immaginarli mentre annaspano sulla prima sbarra del traliccio, mentre qualcuno urla loro "Su, forza, ora arrampicatevi, cretinetti!". Proviamo a immaginarli, quei due mentecatti a pagamento, mentre pigliano una bordata da ventimila volt o quant'erano; incredibilmente, però, continuerebbe a percepirsi all'intorno una gran puzza di merda, e non di arrostino. Proviamo a immaginarli, infine, cadere giù come sacchi di patate, ma patate parecchio andate a male. Infine proviamo a immaginarci Luca Abbà, perché uno come lui non riderebbe affatto. Uno come Luca avrebbe troppo rispetto per la vita, per gioire persino della morte di un paio di merde.

Ed ecco, in sintesi, perché non ce la faranno.
Perché la forza di una lotta si misura in questo, anche in questo.
Perché ne avranno da mandar su, di pecorelle armate.
Perché ne avranno da far sbavare, di vegliardi presidenziali non competenti per i quali sarebbe sufficiente la scossa di una pila stilo per mandarli al creatore.
Perché quando si sa per che cosa e per chi si combatte, e non si è disposti a cedere, si vince.
Luca, grazie.
E grazie a tutti quelli e quelle come te.
No pasarán!

Evoluzionismo


1994

2012

lunedì 5 marzo 2012

Non arrendersi


Oggi ho letto una cosa che mi ha dato parecchio da pensare.

L'ha scritta il Sassicaia Molotov sul suo blog, e naturalmente invito tutt* a leggerla con l'attenzione che merita. Invito a farlo anche perché detesto fare riassunti, fin da quando ero alle elementari. Non mi piace riassumere e condensare, perché ritengo che le cose scritte da altri debbano essere lette nella loro integralità, parola per parola, senza nessun filtro sia pur (relativamente) fedele.

Quello che ha scritto Sassicaia Molotov è del tutto vero. Lo dico subito, cosí da sgombrare il campo da ogni equivoco. Quella che segue non è in alcun modo una confutazione, ma l'espressione di differenti conclusioni; ci sarebbe, del resto, ben poco da "confutare" su un'analisi spietatamente esatta della realtà attuale.

Contrariamente al Sassicaia, penso di essere molto carente sul lato "cinismo". Non mi è mai riuscito essere cinico, nemmeno quando (forse) sarebbe stato opportuno e mi avrebbe cavato da un bel po' di guai. Va da sé che la cosiddetta "pace interiore", non tenendo conto delle mie capacità introspettive vere o presunte, ha smesso da un bel po' di attenermi; non ce l'ho mai fatta a rinchiudermi dentro alcuna "pace", anche nei momenti in cui dicevo di ricercarla ardentemente. Chiaro che ognuno di noi, in certi momenti, ha bisogno almeno di una tregua; non foss'altro che per rimettere un po' in ordine le idee e trarre delle conclusioni sia pur parziali. Quella delle conclusioni, lo ammetto, è una mia fissazione: avendo avuto a che fare, nella mia vita, con incartamenti, intrichi, grovigli e viluppi, ho conosciuto da vicino le rovine che essi provocano. Le rovine degli impasse autoprovocati, delle stasi ricercate e anelate, dei blocchi, delle strade senza uscita. E' andata a finire che ho individuato il colpevole principale di tutto ciò proprio nel "cinismo", che ho di conseguenza preso a evitare come la peste, a rifiutare, a odiare in quanto comodo pretesto per dichiararsi, ad un certo punto, fuori dalla mischia.

Con questo non voglio dire che chi si dichiara "cinico" sia una persona per me detestabile. Tutt'altro. O meglio: il cinico reale, ostentato, convinto e conclamato può pure girarmi alla larga, poiché la sua azione di convincimento, con il sottoscritto, risulterebbe vana. Sono del tutto impermeabile. Quando invece, di fronte ad una professione di cinismo, intuisco che dietro c'è tutt'altro (come nel caso del Sassicaia Molotov, tanto per essere chiaro), non cesso affatto di considerare questa persona come un compagno di strada. Nonostante lo sbandieramento di una "pace interiore" che somiglia da vicino al famoso smettere di fumare con l'agopuntura. Mio fratello, anni fa, diceva di avere smesso di fumare con l'agopuntura e poi mi chiedeva le sigarette di nascosto. Chi dice di aver raggiunto la "pace interiore" a vari gradi scrive poi delle cose in cui non soltanto parla di guerra, ma la chiede. La invoca come necessaria, precisando casomai delle critiche metodologiche.

Ripeto: l'analisi della realtà attuale fatta dal Sassicaia Molotov è assolutamente esatta. Un testo che dovrebbe essere stampato e distribuito come volantino. Lanciato dagli aeroplanini sulle folle assiepate. Diffuso in modo capillare. Non nascondo affatto che questo mio post vorrebbe essere anche una specie di mattoncino nella sua diffusione, e mi auguro che contribuisca a creare un giro perlomeno ampio. Ciò con cui non posso e non voglio essere d'accordo, sono le sue conclusioni. Accettarle sarebbe per me come una dichiarazione di resa. Rifiutare di arrendersi non significa però non avere piena coscienza della realtà.

Il poeta e guerrigliero nicaraguense Leonel Rugama, ad esempio, aveva una coscienza pienissima della realtà, specialmente mentre resisteva da solo davanti a un intero battaglione della polizia somozista, il 15 gennaio 1970. Era l'ultimo rimasto vivo di un gruppetto di guerriglieri che erano già stati tutti massacrati, in diretta televisiva (il dittatore la aveva ordinata come "monito alla popolazione"). All'ordine di arrendersi dato da un colonnello, Rugama, prima di cadere a sua volta ucciso, rispose semplicemente: Que se rinda tu madre! Che si arrenda tua madre!

Leonel Rugama aveva 21 anni.


Forse qualcuno potrà chiedersi dove io abbia individuato questo "cinismo all'incontrario" del Sassicaia Molotov, che poi è identico a quello di moltissimi che, al pari suo, ad un certo punto sono sembrati aver dichiarato forfait. Un percorso, lo so bene, molto comune. Talmente comune da essere probabilmente maggioritario; quello che chiamo antagonismo latente, messo apparentemente in soffitta, nascosto dietro musichette più o meno gradevoli, dietro film più o meno belli, dietro mille e mille palliativi mentre la guerra, quella descritta perfettamente dal Sassicaia, va comunque avanti.

L'ho individuato in una frase del suo post, giustappunto quella "metodologica". Dice così: Una guerra che mira ad annichilirci. Per ora chi si ribella ha 100 di cuore e praticamente ZERO strategia.

Questa frase è altamente indicativa e può essere utilizzata in senso generale.

E' il cinico "pacificato interiormente" che esprime invece tutta la sua voglia di agire, di opporsi, di vincerla, questa guerra. Il cinico vero, quello che ha raggiunto il punto di non ritorno, se ne frega altamente sia del "cuore" che della "strategia". Ci ha il suo cinismo autoreferenziale, che tutto esclude e tutto ingloba al tempo stesso. Ci ha da condurre il mondo a sbattere in un muro, mettendosi peraltro al servizio di chi mira ad annichilirci. Chi mira ad annichilirci apprezza non poco coloro che, ad un certo punto, dicono che non c'è più nulla da fare. I "cinici" alla Sassicaia Molotov, invece, fanno riferimento al cuore e alla strategia. Non ce la fanno a nascondere ciò che ribolle loro dentro, e a mio parere fanno benissimo.

Va detto che un'affermazione del genere non è, comunque la si veda, del tutto giusta.

In Valsusa hanno sí il cuore ma, perdio, anche un bel po' di strategia. Sono vent'anni che resistono, e non si resiste per vent'anni senza strategia di lotta, senza obiettivi chiari, senza metodi. Insomma, bisognerà pur dire che 'sta Torino-Lione "fondamentale" non è mica ancora stata fatta; come ha fatto opportunamente notare Alberto Perino, "Della TAV si è cominciato a parlare con un governo Berlusconi, che invocava fermezza assoluta; poi è venuto Prodi e diceva le stesse cose; poi è tornato Berlusconi e di nuovo le stesse cose; ora le stesse cose le dice Monti, e siamo sempre qua". In più, la lotta NO TAV ha oramai, grazie probabilmente alla sua stessa caratteristica di lotta territoriale allargatasi idealmente a simbolo e immagine dell'intera lotta anticapitalista, assunto dimensioni che non possono più essere fermate, e che stanno a loro volta generando strategie che fanno paura proprio perché si adattano di volta in volta alle situazioni. La strategia, ma sono convinto che il Sassicaia lo sa benissimo, non ha bisogno di uno "stratega", di un Von Clausewitz che pensa e decide; la strategia può essere collettiva e mostrare la propria efficacia in maniera spesso proteiforme.

E in Grecia? Sbaglierebbe chi etichettasse le proteste greche, in una situazione pur terribile, come "spontaneismo ribelle". In Grecia c'è stato sempre e c'è coordinamento, con obiettivi parecchio chiari da colpire. Certo, ancora c'è moltissimo da fare. La guerra è in corso, ma nessuno se ne sta lì a farla per ghiribizzi squinternati. Quel che stanno cercando di impedire lorsignori, infatti, è esattamente la creazione di una strategia saldante generalizzata; ma quando, nei giorni scorsi, in risposta agli espropri e alle recinzioni valsusine in ogni città d'Italia si sono avuti blocchi, beh, questa è strategia. Si potrà dire: è poca cosa, ancora. Certo. Ma mi risulta che è sempre stato dalle "poche cose" che sono nate le rivoluzioni, e che sono state vinte guerre impossibili. L'importante è non fermarsi. L'importante è non arrendersi, mai.

Non importa nulla se si è vissuto, tanto per citare un'ultima volta il Sassicaia Molotov, "occupazioni, manifestazioni, lotte belle ed utili, bellissime ed inutili". Si deve essere sempre pronti, in ogni momento, a lottare ancora. Il prezzo è, appunto, l'annichilimento; ma è un annichilimento che, di fronte a una resa, viene già messo in atto. Uno in meno. Uno che, sí, rimane col cuore vicino a chi lotta, ma che smette di lottare. Beh, d'accordo, ora lo farò io un po' il "cinico"; ma dico che di questi famosi "cuori vicini" nessuno sa più che farsene. Se ne potrebbero restare tranquillamente lontani, allora, e godersi la loro "pace interiore" e a farsi annichilire mentre ascoltano la canzoncina tanto bellina o disquisendo di blues e soul mentre il mondo somiglia sempre di più al neomelodico che canta " 'O capoclan".


Sí, certo, è una guerra. E visto che siamo in guerra, ci sono soltanto due alternative. La prima: la si fa, e la si fa per vincerla. Ad armi dispari. Con le mazze contro i droni. Con la piena consapevolezza che saremo annientati, forse. Con tutte le utilità e le inutilità del caso, senza però farsi sopraffare né dalle une né dalle altre. Non a caso, lo slogan dei valsusini è 'a sarà düra; e non a caso non si sono arresi, e non si arrenderanno. La seconda alternativa: defilarsi, ritirarsi, sganciarsi e attendere gli eventi. Però, almeno, senza pretesti. Si accetti lo status quo e tutto ciò che ne consegue, occupandosi realmente di altre cose senza fare periodiche "incursioni" nella guerra quando ne punge vaghezza, accondandosi in temperie favorevoli e tornando a nascondersi quando si riaddensa la tempesta. Il post di Sassicaia Molotov definisce magistralmente la guerra; a ognuno, adesso, decidere se combatterla o di farsi da parte. Osservando con attenzione lo svolgersi degli eventi, è possibile cogliere una strategia ben precisa e il problema non è più individuarla o meno, ma averne o meno paura. Non è niente di nuovo, fra le altre cose. E' sempre stato così. In ogni guerra.

Può darsi che, come afferma il Sassicaia Molotov, le forme di dissenso siano vecchie di 100 anni; però queste vecchie forme di dissenso, se applicate a dovere, mi sembra che funzionino ancora ammodino. Il problema non è crearne di nuove, non è fare "creatività di lotta" (anche se, in alcuni casi, essa si viene comunque a plasmare a seconda delle situazioni); il problema è sempre uno e uno solo. I numeri. La quantità di persone disposte a lottare. Agire in tutti i modi perché tale quantità aumenti sempre di più non è mandare persone inermi al massacro; è cercare di vincere la guerra, dato che questa sarebbe una guerra per non essere annichiliti. Se dobbiamo essere annichiliti tutti, comunque, tanto vale andare al massacro. Se siamo ancora in troppo pochi, dobbiamo essere in molti.

E' senz'altro vero che i sistemi repressivi e di controllo sono sempre più terribilmente perfezionati, ma mi chiedo una cosa e, nel contempo, la chiedo a tutti quanti: se sono già così nel futuro, come mai ancora non sono riusciti a schiacciarci completamente? Come mai ancora esistono così tante resistenze? Come mai alcune migliaia di valligiani scalzi e gnudi (letteralmente) sono riusciti a fermare qualcosa per la quale è stato messo in campo di tutto dal potere? Come mai riusciamo ancora a sfuggire al loro controllo, a volte persino con accorgimenti semplicissimi? Come mai? Forse perché tanti non si sono arresi, e hanno mandato alle ortiche stanchezze, disillusioni, cinismi prefabbricati e quant'altro?

Farebbe bene a tutti passare un po' di tempo in Valsusa, e vedere che cosa stanno facendo quelle persone. Leverebbe un bel po' di grillini dal capo, considerando anche che sono vent'anni che cercano di prenderli per sfinimento, e che quelli invece trovano sempre nuove energie. Le trovano perché sono minacciati di distruzione, di estinzione. Le trovano per loro stessi e sono riusciti a trasmetterle agli altri, spesso intorpiditi da un funestus veternus di anni e anni di seghe mentali. Ed è da qui che bisogna (ri)partire. Per questo, dall'altra parte, hanno sfoderato tutte le loro armi nel futuro: perché hanno capito che c'è il rischio concreto che le buschino sode dalle armi del passato. Fanculo al futuro, c'è ma bisogno di tornare nel '900!

Non arrendersi, mai.

Anche dai propri blog, certo. O queste qui non sono armi del futuro, poi? Come mai cercano inutilmente di imbavagliare la Rete? E i blogger che fanno? Si defilano?

Ne esistono due categorie, di blogger defilanti. Quelli che, a un certo punto, si mettono a parlare delle loro grandi passioni (musica, cinema, fumetti, sport, libri, francobolli, quel che volete). E quelli, magari militanti fino al giorno prima, che un bel giorno scoprono le gioje della paternità o della maternità. Mi è capitato di recente con un blogger che seguivo, nei cui post faceva sempre più capolino il suo bambino piccolo. Ma che du' paia di coglioni, con questi figli del cazzo (beh, certo, chiaramente lo sono!). Ma vaffanculo a voi e alle vostre famigliuole di merda, all'educazione giorno-per-giorno e alle domandine vitali del marmocchio che cresce. E che fate, da una parte scrivete post apocalitticamente disillusi, vi ritirate nel vostro caldo focolare, parlate prevalentemente d'altro, sostenete che saremo annichiliti e poi ci deliziate con le pippe sulla bella frasetta d'un moccioso dalla quale partite con commoventi e profondi filosofèggi mentre quegli altri ci stanno sparando addosso? O che lo avete messo a fare al mondo il pargoletto, per farlo annichilire senza combattere? Credete di divertirvi tanto, a aspettare la fine standovene là fermi? Credete di godere di tanti piaceri? E quali sarebbero? E' andata così a finire che quel blog l'ho cancellato, fra l'altro prima che si cancellasse da solo. Uno in meno. Uno che si è arreso.

Chiaro, certamente, che ognuno fa quello che vuole. Parla (o non parla) di quello che gli pare. Può scegliere di cedere in ogni momento. Può stancarsi e desiderare altre cose, magari con frequenti retropensieri, con microfiamme che lo trapassano da parte a parte e che gli convogliano a volte l'impulso a sputare addosso alla propria immagine riflessa nello specchio. Può mettere in atto tutti gli autoconvincimenti che più gli aggradano, i "cinismi", i "realismi" e quant'altro. Può declinare tutte le proprie "esperienze", ignorando forse che l'esperienza che veramente vale è quella ancora da farsi. Può tornare indietro ai propri disastri personali e collettivi, e decidere di bloccarsi là. Bene. Però, a questo punto, sappia che è già annichilito. Che hanno vinto loro. E che, purtroppo, la loro vittoria non riguarda soltanto chi si è arreso, ma anche chi non si è arreso affatto. Saggezza popolare voleva che in ballo bisognasse ballare, fino alla fine in un senso o in nell'altro; saggezza che è andata perduta. Ora come ora si balla finché se ne ha voglia, poi si passa ad altro, e magari dopo un po' si torna a ballare perché la voglia è tornata. A fasi alterne. Non va così. Non va un cazzo. Specialmente quando si dimostra di averle comunque ben chiare, le cose.

E allora, basta così. Questa è la guerra. Hic Rhodus, hic salta. Non ci arrenderemo. E c'è chi lo sa bene, accidenti se lo sa. Madonna cane, che cazzo è 'sto ronzio sulla testa...un drone in via dell'Argingrosso...? Schiacc' !

domenica 4 marzo 2012

Un altro servetto qualsiasi


L'entità pulloverizzata raffigurata nella foto sopra va sotto il nome di Michele Serra.

Informano le biografie di tale entità che essa è nata a Roma il 10 luglio 1954 e che scrive da qualche decina d'anni dei commenti corrosivi più o meno espletati nell'ambito dell'ex Partito Comunista Italiano e dei suoi ancor più o meno derivati. Nel medesimo ambito diventa famoso per satireggiare prima con "Tango" e poi con "Cuore"; come esempio supremo di tale satira, nel 1990 si iscrive contemporaneamente al Partito Radicale, agli Antiproibizionisti e ai Verdi Arcobaleno, contravvenendo allo statuto del PCI e dichiarando, in feroce polemica con Piero Z. Fassino ("Z." sta per Zombie), di averlo fatto per chiedere che la "sinistra" possa diventare "unita e antagonista".

Ventidue anni dopo, il Serra Michele ce lo ritroviamo ancora a corrodere con riquadrini su Repubblica, che fino all'altro ieri -inutile persino specificarlo- sono stati occupati quasi interamente da Berlusconi. Arruolato in pianta stabile, negli ultimi tempi si è dedicato spesso e volentieri ad un'attività altamente apprezzata da quelle parti: il servetto pro-TAV. Non ci sarebbero da spendere eccessive parole su una figura del genere, specializzata da sempre nel leccare tutto il leccabile facendo finta di ironizzare pesantemente, ma tornando a obbedire non appena veniva richiamato all'ordine oppure c'era una "causa superiore" cui uniformarsi. Repubblica ama parecchio queste false figurette "devianti", apparentemente spesso in contrasto con le linee editoriali e politiche, ma che al momento giusto, da buoni picciotti quando il capobastone lo ordina, si mettono buoni buoni al servizio. Per quanto riguarda la TAV, ne abbiamo già vista una, l'illuminato matematico Piergiorgio Odifreddi.

Come il Serra è specializzato in Berlusconi, l'Odifreddi è specializzato invece in anticlericalate, razionalità e scienze. Queste ultime, però, non gli hanno impedito di schierarsi a favore della TAV con argomentazioni di una banalità raggelante, da bar sport. L'altro giorno, da un pizzicagnolo dell'Esselunga, ne ho sentite di singolarmente identiche; solo che quest'ultimo, appunto, affetta salami e impasta salsicce. Non fa il matematico tuttologo su Repubblica. Il Serra è, naturalmente, altrettanto banale e servile; solo che lo deve fare satireggiando nei suoi riquadrini (i quali, va da sé, prima o poi verranno raccolti nel volumetto simil-bestseller, come quelli delle vignette di Forattini).

Poco fa mi è capitata tra le mani una copia di Repubblica di venerdì scorso, 2 marzo. Il riquadrino di Michele Serra, quel giorno, se la prendeva con gli antagonisti. Basta una telefonata, ma che dico, un messaggino SMS: "Ahò, Michè, oggi ce devi scrive du'righe su que' puzzoni d'antagonisti, cerca d'esse' gajardo". E Michè (che non è, purtroppo, quello che s'impiccò nella vecchia ballata di De André) scrive. Non importa sapere esattamente cosa, e in quale prevedibilissimo modo; importa invece ricordarsi di quando voleva la "sinistra unita e antagonista" iscrivendosi al partito dei guerrafondai filosionisti "gandhiani" e alla formazione del fascista cannabinomane Marco Taradash. Logico che, alla fine, uno che ha avuto così ben chiaro che cosa fosse l'antagonismo si sia ritrovato a sbeffeggiarlo si-gnor-sì! quando gli è stato comandato.

S'incazzano parecchio, i micheliserra, quando viene ricordato loro lo status di servi obbedienti che rivestono; si ergono immediatamente, s'imbufaliscono e fanno proclami automatici di libertà e di indipendenza, menzionando magari passati che starebbero a dimostrarle. Il qui presente, invece, ha sempre schifato grandemente le satire istituzionali e promananti dagli organi di partito o dai quotidiani che sono diventati partito. Più ha sentito pronunciare e scrivere, a profusione, la parola irriverente, e più si è ricordato che la cosiddetta "irriverenza" presuppone una riverenza di base che, per il suo tornaconto, permette a volte che la si irrida falsamente e senza mai toccarla nel profondo (è, tra l'altro, la perfetta essenza anche di Striscia la Notizia dell'intoccabile peracottaro Antonio Ricci). Non per niente, il Michele Serra è (o è stato, non ricordo) coautore della bibbia del leccaculismo televisivo, Che Tempo Che Fa, affidato a Fabio "Chupa Chups" Fazio.

Ora il Michele Serra può finalmente mostrarsi per quel fulgido antagonista che è sempre stato, attaccando dai suoi riquadrini repubblichini chi certamente non ha a disposizione cotali e cotanti mezzi per ribattergli a dovere e per fargli presente che è soltanto un altro servetto qualsiasi, a disposizione nel suo campo specifico. Un soldatino che marcia obbediente. Una pecorella forse ancor più dell'encomiato carabinierino figlio di operai. Ora il Michele Serra non fa più feroci polemiche con Piero Fassino: sono entrambi sulla stessa allegra barca, in compagnia dei Monti, dei Virano, degli Esposito, delle Bresso, dei Marchionne, delle Marcegaglia, delle Cancellieri e di quant'altri. Proprio un bel tango, non c'è che dire! O una questione di cuore?

Chilomaschile


Qualche tempo fa avevo avuto a che fare col "metro (o centimetro) maschile"; direi che sarebbe ora di cambiare unità di misura, e di sostituirla col chilo. I "maschili", oramai, ammazzano donne e altri esseri umani un tanto al chilogrammo, come è accaduto ad esempio stanotte a Brescia. Nell'ordine: l'ex moglie del maschile di turno e un amico di lei, ammazzati in mezzo di strada come cani; poi la figlia ventenne di lei, "avuta da una precedente relazione", e il fidanzato della ragazza, abbattuti mentre dormivano a casa della madre. Decine di chili di carne umana sterminati dal maschile che non si rassegnava eccetera; la "mancanza di rassegnazione" degli ometti è diventata oramai una cosa pericolosissima. Si potrebbero studiare contromisure, del tipo apporre su questi tipi un'etichetta del tipo "il non-rassegnato uccide", come il fumo sui pacchetti delle sigarette; solo che il fumo uccide lentamente, mentre questi qui lo fanno in modo estremamente rapido. Scendono in strada, aspettano la donna, sparano ammazzando anche chi si trova con lei, poi completano il raptus recandosi lucidamente in una casa e facendo fuori una ragazza che ha l'unica colpa di essere una figlia non propria, e un ragazzo che sta insieme a lei. Si noti bene, infatti, che stavolta il maschile non ha toccato i tre figli avuti con l'ex moglie; e, per l'intervento di un carabiniere che lo ha disarmato, non ce l'ha fatta a ammazzarsi.

Bisognerebbe, come sempre, fare delle considerazioni. Francamente, però, non ne vedo più l'utilità di fronte all'ennesima strage che verrà sicuramente definita familiare. Ma non è una strage familiare, è la solita strage di una mentalità che sembra non trovare più nessun ostacolo. La fine di una relazione, dal flirt adolescenziale al matrimonio con figli, è oramai da considerare un pericolo di morte, di mattatoio a cura del maschile non-rassegnato eccetera. Come nei macelli comunali (si veda ad esempio quel che è accaduto di recente a Trapani). Una cosa normale, del tutto accettabile; se il maschile si ammazza non c'è più niente da fare, e se non si ammazza (o non ce la fa a ammazzarsi) intervengono tutti i palliativi che porteranno prima o poi al rovesciamento di tutta la questione, dalle cause al perdono, dalla situazione economica difficile alla solitudine. Il maschile, nella sua saccoccia di chili, ha già tutti gli antidoti assieme all'arma. Assassino è chi urla in faccia a uno sbirro quel che è senza nemmeno toccarlo di striscio, non chi macella quattro persone scegliendole peraltro accuratamente. E chi si trova, una domenica mattina, a leggere l'ennesima notizia agghiacciante, non è preso più nemmeno dallo sconforto o dalla rabbia: è preso dalla coscienza di una sconfitta definitiva.

Qualsiasi donna che si ritrovi a vivere la fine di una relazione (anche non conflittuale, perché potrebbe sempre e comunque insorgere il famoso raptus) dovrebbe ormai considerare l'idea di doversi difendere da sola; lei stessa, i suoi figli, i suoi amici. Le cifre annuali stanno là a dirlo. Tutte sono esposte al chilomaschile. Tutti siamo esposti. Nulla viene fatto e, anzi, se ci sono interventi sono costantemente in senso opposto. Si creano campagne mediatiche con tanto di fiction propagandistiche, si creano finte "sindromi di alienazione", si creano giustificazioni, si crea un humus "culturale" che promuove e santifica il possesso e la prigionia travestiti da "amore", fin dalla più tenera età; poi, naturalmente, si ciancia a profusione di "valori". "Valori" che, prima o poi, giacciono invariabilmente in mezzo a una strada, o in una casa, riempiti di piombo. Piombo a chili, a chili maschili.

Non vorrei che queste mie parole celassero però troppo ciò che ho dentro ogni volta che vengo a conoscenza di un fatto come quello di Brescia, e come quelli che accadono ogni giorno in tutto questo paese. Se la strage fascista di Brescia del 1974 fece otto morti, questa ne ha fatti pochi di meno; solo che queste quattro persone, queste due donne e questi due uomini, non avranno mai nessuna lapide, nessuna commemorazione, nessun anniversario da ricordare. Scordati tutti dopo due giorni, e per sempre. Ancora, mentre scrivo, non se ne conosce neppure il nome; se ne può immaginare soltanto il peso. Chili di carne morta, grazie all'ennesimo maschile che ha usato il suo bel "metro". Non intendo esprimere "pietà" per quelle persone, perché alla pietà bisognerebbe una volta per tutte dare un ostracismo senza appello. Intendo esprimere un appello all'autodifesa preventiva come unica contromisura, perché non si vede più altra strada praticabile. Leggere un giorno, finalmente, che il "maschietto abbandonato" è stato messo fuori causa con un bel tiro di precisione dalla vittima designata, prima che abbia avuto il tempo di estrarre la sua arma. Ecco, questo forse servirebbe parecchio a limitare gli effetti di metri, chili e litri maschili.