giovedì 8 marzo 2012

Mafalda e i fiammiferi


Dico sempre che se il genio della lampada mi concedesse di saper scrivere tre canzoni, la prima sarebbe per la Mafalda; e alla Mafalda non bisognava darglieli, i fiammiferi.

Le piacevano gli svedesi o i “familiari”, quelli con la carta sabbiata sul pacchetto. Se ne trovava una scatola, non aveva pace finché non li aveva bruciati tutti; e c'era il rischio che desse fuoco alla vecchia casa con la torre, specialmente quando cascava giù il vento dalle colline e sembrava dovesse svellere ogni cosa dalle fondamenta. Bisognava nasconderglieli, i fiammiferi. Ma, a volte, non serviva.

Coi fiammiferi ci si campava in quella casa, perché di riscaldamento a gas non ce n'era. C'erano i caminetti e la stufa a legna. Bisognava dare fuoco alle fascine e alla “diavolina” che mandava un puzzo micidiale; alla carta di giornale. Poi i rami più grossi, tondi, e infine i ceppi quando tutto aveva ben preso. E occorreva anche tenere lontana la Mafalda, perché sennò i fiammiferi finivano in un amen.

I fiammiferi? Ce ne sono di fiammiferi? Quello lo chiedeva sempre. I fiammiferi e qualsiasi cosa d'alcolico, vino, grappa fatta in casa. Capace di seccarsene da sola una bottiglia. Non l'avevo mai vista, e non la vedrò mai più, una faccia come quella. Era vecchia, sí, la Mafalda, ma sembrava venire diritta da ancora prima, da qualche secolo buio. Occhi chiarissimi, verdi, meravigliosi e spaventosi al tempo stesso; messi dentro una faccia dura, tremenda, cattiva che rare volte si apriva ma mai a qualcosa che rassomigliasse alla gioia. Si diceva che non c'era con la testa, e forse era anche vero; ma in quella testa s'agitavano fantasmi che nessuno avrebbe saputo mai immaginare. S'agitavano fantasmi e bruciavano fiammiferi.

Si nascondevano, sí. Ma se non li trovava, e magari noi s'era fuori di casa o in qualche altra stanza, andava nella sua camera piena di bambole gnude, di cianfrusaglie d'ogni sorta, di sporcizia e d'odore greve di vecchia e di piscio. Cavava fuori un portamonete che nessuno sapeva dove lo tenesse; e nel portamonete c'erano fior di quattrini. Non gli spiccioli: fogli da cinquanta e centomila lire. Il marito gliene aveva lasciati di soldi, risparmiati giorno dopo giorno; e poi anche lei lavorava come una negra. Lavorava in una fabbrica di fiammiferi. Operaia per trent'anni e rotti. Gli stessi trent'anni che aveva sua figlia quando una leucemia fulminante se l'era portata via in pochi mesi, lasciandola a badare a una bambina di quattro anni.

La bambina sta ancora in una fotografia, che ho tenuto a dispetto di tutto.

Quando i fiammiferi non c'erano, e nessuno la vedeva, pigliava il suo portamonete e, alla zitta, inforcava le scale. La fermata della corriera era sulla strada provinciale, là davanti; la aspettava e se ne andava in paese. La conoscevano tutti e le chiedevano, sembra, dove andasse; rispondeva che erano finiti i fiammiferi.

Ora che ci ripenso, sí, la sua storia la devo avere già raccontata; pazienza. La racconto di nuovo. Non ho di certo firmato contratti. E, poi, ogni volta una storia è diversa; vengono a mente cose differenti, arrivano alla memoria sguardi ignoti.

Erano finiti i fiammiferi, e andava in paese a comprarli. E, allora, certi bottegai maiali se ne approfittavano. Una volta tornò con una sacchettata di fiammiferi familiari, ne doveva aver comprati per una cinquantina di scatole; e aveva speso seicentomila lire. Metà di quello che le era stato preso in banca l'ultima volta, perché i soldi erano suoi. Urla, allora; ma c'era poco da urlare. Se si tornava al negozio per reclamarli, il bottegaio diceva che non era vero, diceva che di sicuro i soldi li aveva persi. Io spero, non di rado, che ci sia un inferno, e che quello lì ci bruci dentro. Ce li metterò io i fiammiferi per dargli fuoco, se passerò da quelle parti. E' abbastanza probabile.

Tanto non si ricordava nemmeno di quel che aveva detto un minuto prima. Ogni tanto si trovavano i cadaveri di decine di fiammiferi sul piano della stufa, o per terra. Chissà com'era stata da ragazza in quelle lande che ora piaccion tanto ai turisti, e che usano per le pubblicità giapponesi e per i film inglesi. Da quelle parti ho imparato una caterva di cose, tipo a non fare tanti idilli per la civiltà contadina; erano violenze e durezze quotidiane. Perché la Mafalda pagava seicentomila lire per qualche scatola di fiammiferi, ma di quand'era ragazzina se ne ricordava bene. Capace d'ingurgitare mezzo fiasco di vino, senza imbriacarsi nemmeno di striscio. Anzi, diventava lucida. Alle volte si diceva che, prima d'andare a comprare i fiammiferi, sarebbe stato meglio darle parecchio da bere.

E da quella bocca sotto gli occhi verdi chiarissimi, da quel viso su cui erano stampate intemperie non dicibili, uscivano maledizioni in una lingua che non esisteva più, ché diceva ancora “unguanno” per “l'anno scorso”, latino hunc annum, e “stólto”, con la “o” bella chiusa, a mo' d'insulto buono per ogni occasione; mi guardava e mi diceva “per me tu' se' proprio stólto” e c'era da aver paura, e c'erano brividi freddi che rantolavano per la schiena. E c'ero, io, capitato per chissà quali capricci del destino da quelle parti, all'indietro nel tempo, per scomparire; per la voglia d'essere dimenticato per un po'.

Se ne ricordava bene di quand'era piccola. Aveva saputo che ero mezzo elbano, e l'Elba sapeva cos'era perché per andare all'Elba bisogna per forza andare a Piombino. Che l'ha mai visto il mare, Mafalda?, le chiedevo; e lei: Non me ne ricordo. Abbaiava un cane lupo enorme, una femmina che era lasciata cacare nel giardino sotto, riempiendolo di merde fresche e secche. A Piombino ci andava suo nonno, a fare non si sa cosa dopo aver tagliato il bosco in Maremma; forse a venderlo coi suoi sodali. Suo padre pestava. Lei e i fratelli. Lei e la madre. A sangue, briaco fradicio; poi, a quindici anni, in fabbrica. Sapeva ancora spiegare come si fanno i fiammiferi, a partire dai tronchi d'albero che arrivavano coi “cami” grossi. Cami, plurale di càmio. La prima figlia l'aveva avuta prima della guerra; un giorno, là dove si puote decisero che il paese andava bombardato perché c'erano delle fabbriche. Anche quella di fiammiferi dove lavorava. La bambina, che aveva nove anni, era morta nel bombardamento. E allora gridava, la Mafalda: Accidenti a quello stólto di Mussolini. A votare non so nemmeno se c'era mai andata, ma a nominarle Mussolini s'incazzava, e quella faccia incazzata sarebbe bisognato a suo tempo metterla davanti a Mussolini. Sono sicuro che sarebbe stato più fermo.

Poi la rifecero la fabbrica, nel dopoguerra, diceva. Non c'era un cazzo, dentro. Non un estintore. Non una canna dell'acqua. Zolfo e legno, legno e zolfo; bastava una scintilla. Otto, dieci ore al giorno, seghe d'ogni tipo, dita che saltavano, a volte braccia intere, a volte vite intere. Si ricordava di tre operai morti, coi nomi; e se le chiedevi cosa s'era mangiato dieci minuti prima, non se ne rammentava già più. Del capoccia che sorvegliava le operaie se ne ricordava perbene, però, e del suo sigaro. Girava in fabbrica col sigaro acceso, apposta.

Lo so perché la sto raccontando ancora, la storia della Mafalda. E perché, chissà quando ma di certo, la racconterò ancora, e ancora, e ancora. Siccome ho rischiato di morire, mi son detto che certe cose è meglio ridirle finché si è in tempo. In pochi anni, quella zona là s'è di nuovo riempita di fabbriche e magazzini; ogni tanto, cosí per dirmi che non mi sono sognato tutto quanto e che ci sono campato per più di due anni, ci ripasso con qualche scusa pietosa. Passo davanti anche al cimitero del paese, dove la Mafalda è diventata ossa. E' morta in un giorno soffocante d'estate, quasi vent'anni fa. In chiesa ci dovetti andare, perché la sua morte valeva solo un pugno di persone. Sua nipote, suo genero, la compagna di lui, e il sottoscritto. A un certo punto mi toccò scappare dalla chiesa, durante il funerale, perché l'incenso da messa mi fa venire la tosse convulsa, da strabuzzare gli occhi. Il bottegaio smise di far soldi fregando una vecchia che andava a comprare i fiammiferi; lo zolfo, S, sulfur, il legno, le capocchie, il fuoco. La fiamma.

E mi sono accorto che sarebbe l'otto marzo, ma la mimosa non piglia fuoco.

In quest'otto marzo regalo fiammiferi, ché di fuoco da dare ce ne sarebbe parecchio.